Nell'introduzione al video del 2011 dal titolo Les Goddesses, Moyra Davey recita di fronte alla telecamera: "Siedi sul pavimento alla luce del sole, leggi otto piccoli taccuini che risalgono al 1998 e cerca una frase di Goethe: 'le stelle sopra, le piante sotto'". All'inizio questa dichiarazione ci lascia disorientati; l'artista ricorda una sua azione passata ma la esprime sotto forma di comando. In seguito ci farà sapere che, nonostante la lunga ricerca, non è riuscita a trovare la citazione.
Come Davey, che sfoglia appunti scritti da una versione precedente di sé di cui non sa ricordare con chiarezza parole e movimenti precisi, anche noi dobbiamo prendere per buona questa frase attribuita a Goethe - "le stelle sopra, le piante sotto" - come tante altre cose del resto. Non è possibile applicare a Les Goddesses una cronologia logica: passato, presente e futuro sono spesso confusi e fraintesi. Assistiamo piuttosto allo svelarsi di un documento fatto di osservazioni intime, resoconti storici e riflessioni - elementi che al tempo stesso arricchiscono e destabilizzano la struttura narrativa del video.
In termini di contenuto, resa e ambientazione Les Goddesses attinge al registro di un diario personale: l'artista si riprende mentre cammina avanti e indietro per le stanze del suo appartamento in un grattacielo di New York, e di tanto in tanto gira la telecamera verso l'esterno, fuori dalla finestra, o scartabella vecchie fotografie e cartoline. Direttamente o con una voce fuori campo, Davey legge un testo: un catalogo di ricordi incompleto e in continuo sviluppo in cui il tempo coincide con la memoria, le testimonianze con le riflessioni e frammenti casuali vengono connessi l'uno all'altro mediante un legame significativo anziché rigoroso. E, come in tutti i diari, Davey è una testimone compromessa: da un lato esprime il desiderio di un rapporto integrato con la storia, dall'altro cerca di articolare una narrazione singola e individuale della sua vita familiare.
Ma il video va oltre anche questo aspetto: altre voci tormentano Les Goddesses e si diffondono nella narrazione, cominciando a definirne forma e contenuto. Davey parafrasa la vita e le parole di Goethe e di sua madre, di Mary Wollstonecraft e le sue le figlie e i suoi amanti, di Freud e Fassbinder, per non parlare di quelle di se stessa più giovane e della sua famiglia. Ogni voce sale alla superficie di Les Goddesses in forma di citazione, aneddoto, o aforisma. Le parole si trasformano in un improbabile coro al servizio di un'unica domanda: come possiamo scendere a patti con la storia?
Questo racconto a più voci costituisce un modello del "ricordare, ripetere e rielaborare", rappresentato dai gesti concreti dell'artista che davanti alla cinepresa parla tentennando, ripetendosi e sbagliando. La vediamo infatti premere le cuffie sulle orecchie, sforzandosi di ascoltare e recitare ad alta voce dopo il segnale acustico. Se il video sottolinea gli errori di pronuncia e le correzioni, il racconto incerto non solo rivela la fragilità del testo recitato, ma conferisce forma drammatica al ruolo conflittuale di Davey, al tempo stesso autrice e lettrice più profonda di Les Goddesses.
Isla Leaver-Yap