Di recente ho iniziato a filmare le visite ai padiglioni di Dan Graham. Le note che seguono sono riflessioni scaturite da questo progetto.
Considerate la mobilità degli osservatori e la messa a fuoco instabile dell'occhio umano, una fotografia non potrà mai rendere ciò che è in realtà una scultura e tanto meno un'installazione o una performance. Uno sguardo statico non può mostrare il rapporto tra spettatore e performer, che è un rapporto fluido, la cui spazialità richiede un obiettivo mobile e i cui tempi prolungati esigono uno sguardo ininterrotto. Ugualmente per osservare un'architettura bisogna muoversi tutt'intorno a essa e attraversarla, cogliendo prospettive che si articolano per piani. Anche l'interazione tra persone che vengono fatte entrare in un edificio, vivono la sua atmosfera e reagiscono l'una all'altra, può essere resa solo mediante un video.
Questa complessità è fondamentale nel caso dei padiglioni di vetro in parte trasparente in parte riflettente realizzati da Graham, poiché essi non sono tanto oggetti da guardare quanto strumenti con i quali guardare, come può essere una finestra, uno specchio o un obiettivo fotografico. La loro fenomenale stereotomia non riguarda solo i pannelli ma coinvolge e riflette la presenza di coloro che - compreso lo stesso artista - al di là e al di qua dal vetro offrono testimonianze e reazioni. Spesso, dalle fotografie, i padiglioni di Graham sembrano meri oggetti, invece io ho cercato di catturare con un video il modo in cui essi influenzano il comportamento consapevole del visitatore, che inizialmente li osserva a distanza, poi si avvicina girando loro intorno e infine entra. Eppure, dato che mentre filmavo gli altri percepivano il mio riflesso, oltre che il proprio, la mia presenza si è spesso inserita nelle opere prima ancora del mio stesso corpo. Ciò ha rovesciato l'effetto creato nei padiglioni-video di Graham, come Present Continuous Past(s) del 1974, che offrivano ai visitatori la loro immagine allo specchio, ma anche video di se stessi proiettati con un ritardo di otto secondi, sufficiente per disorientare l'osservatore, che ha l'impressione di guardarsi come se fosse un altro, ma non abbastanza da stabilire una distanza tale da renderlo protagonista di una "storia". Come notano Thierry de Duve e Eric de Bruyn, tutte le opere di Graham - fin dal modello di poesia del 1966 intitolato Schema - si oppongono all'essere viste come oggetti autonomamente estetici o strumenti di un loop autoreferenziale. Sempre incomplete, sempre bisognose di un'integrazione performativa per diventare reali, esse fanno sì che ogni supplemento - e quindi ogni registrazione - non sia altro che una "istanziazione" in una serie contingente e aperta.
Allo stesso modo, ho scoperto che videoregistrare un padiglione significava inserirsi in un ciclo che Graham aveva iniziato con i suoi film e video. Infatti, proprio come non si vede mai lo specchio ma solo ciò che esso riflette, non si può riprodurre un padiglione ma solo l'evento che vi si svolge in presenza della telecamera, e sempre in modo incompleto perché unidirezionale. Avvicinandosi ed entrando, il padiglione stesso svanisce, e il regista si confronta con innumerevoli scelte, quali ad esempio da dove filmare e cosa mettere a fuoco: le pareti di vetro, i corpi dei presenti, i loro riflessi, oppure il riflesso di se stesso che filma. Si vorrebbe fare una panoramica e poi a passare la telecamera ad altri. In effetti, si avverte il bisogno - come in Body Press del 1970-1972 - di una seconda telecamera che filmi da una posizione opposta, o meglio ancora che trasmetta dal vivo, come ha fatto Graham quando ha concepito il video. Infine, si comprende che la registrazione potrebbe essere trasmessa solo se realizzata pienamente come un evento, e ciò comporta che, come l'interprete di Performer/Audience/Mirror del 1977, si deve interagire in tempo reale con gli altri presenti. Non esiste una posizione esterna, in terza persona, dalla quale trasmettere il video dei padiglioni. Entrare in uno di essi significa legarsi a una topologia, continua nel tempo, estesa nello spazio.
Brian Hatton