1955 | La Tartaruga | Titina Maselli

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La Tartaruga

La galleria aprì i battenti il 25 febbraio del 1954 in un locale di via del Babuino 196. A due passi da Piazza del Popolo e di fronte all’ex Hotel de Russie (oggi riaperto) dove un anno prima era approdata la RAI. 

Galleristi sono due sposi, Plinio De Martiis e Maria Antonietta Pirandello. Lei ha trentuno anni ed è la nipote di Luigi Pirandello, lui di anni ne ha trentaquattro e ha già fondato un teatro (Il Teatro dell’Arlecchino aperto nel 1946 con Un marziano a Roma di Ennio Flaiano), condotto la professione di fotografo (nel 1952 era stato tra i fondatori della cooperativa Fotografi Associati con Caio Garrubba, Franco Pinna, Nicola Sansone e Pablo Volta, aveva collaborato con” Il Mondo”, “Vie Nuove”, “L’Unità”, “Noi Donne” e pubblicando, tra gli altri, un incisivo reportage sull’alluvione del Polesine), era stato anche funzionario del Partito Comunista Italiano per stampa e propaganda

Plinio De Martiis è il più celebre dei galleristi italiani del Novecento. Il suo nome è noto agli storici dell’arte di mezzo mondo sebbene egli non si sia mai allontanato da Roma, se non in tarda età per consumare l’ultima delle sue imprese, le mostre a Castelluccio di Pienza. La sua intelligenza, la sua inventiva, la sua capacità di comunicare con il prossimo e la circostanza favorevole di una città gremita di scrittori, pittori, scultori, registi e musicisti, lo hanno reso una figura mitica. 

La scelta del nome della galleria fu affidata alla sorte: dai cinque bigliettini depositati nel cappello di Mario Mafai venne estratto quello di Mino Maccari e a lui toccò disegnare la tartaruga che diede il nome all’impresa. La prima mostra, forse per non far torto a nessuno dei numerosi amici, venne dedicata alle litografie di Honoré Daumier, Cham e Charles Vernier con una citazione di Charles Baudelaire riportata nel biglietto di invito. Evidente presa di posizione a favore della modernità.

La modernità di Plinio De Martiis inizialmente fu leggera, scanzonata e fertilissima, come quella di Mino Maccari. Poi espressa attraverso un’ostentata estraneità alle fazioni (agguerrite dalla presa di posizione del PCI) che opponevano astrattisti e figurativi. De Martiis fece mostre agli uni e agli altri, talvolta persino affiancandoli su una stessa parete (prediligendo, forse, quelli che nelle loro pitture o sculture scardinavano le distinzioni): Mario Mafai e Raphaël Mafai, Giulio Turcato, Ettore Scordia, Titina Maselli, Fausto Pirandello, Corrado Cagli, Antonio Scordia, Piero Sadun, Ben Shan, Francesco Trombadori.

Intorno al 1957, in un clima di maggiore tensione sociale (Ungheria 1956), forse anche a causa della concorrenza di altre gallerie o per un mestiere che andava maturando (e con esso inevitabili scelte di campo), Plinio De Martiis si concentrò su un novero di artisti, molti appartenenti alla sua stessa generazione, tutti impegnati nel definire, su basi del tutto rinnovate, i valori formali e morali dell’opera d’arte (taluni elaborando teorie, altri no): Pietro Consagra, Piero Dorazio, Ettore Colla, Salvatore Scarpitta, Achille Perilli, Leoncillo, Conrad Marca-Relli, Alberto Burri, Toti Scialoja.

La modernità di Plinio De Martiis sono state anche le mostre che per primo in Italia dedicò agli artisti americani: Franz Kline, Robert Rauschenberg, Mark Rothko, Cy Twombly, dovute alla fama di cui godeva La Tartaruga, principale interlocutrice a Roma di galleristi internazionali. Ma grazie anche al suo amico e finanziatore, Giorgio Franchetti, lui sì instancabile viaggiatore. Sono noti i rapporti intercorsi tra Plinio De Martiis e Leo Castelli o Ileana Sonnabend (il fallimento del progetto di aprire con quest’ultima una galleria, conferì a Plinio De Martiis - complici un poco di retorica e di sciovinismo - il merito di aver difeso l’arte dal mercato), ma se ne annoverano molti altri coltivati con l’apprezzabile scopo, si evince dalle lettere e dalle interviste, di esportare all’estero gli artisti della galleria.

La galleria cambiò passo intorno al 1960, quando una nutrita nuova generazione di artisti venne alla ribalta. La Tartaruga continuò a ospitare le mostre di Cy Twombly (6 personali e 12 collettive tra il 1958 e il 1970), di Achille Perilli, di Giulio Turcato o di Franz Kline, ma prorompente fu la presenza dei nuovi arrivati.

Chi in epoca recente chiese a Plinio De Martiis come fossero avvenuti i suoi incontri con gli artisti ricevette in risposta il suo stupore: Roma era un mondo affollatissimo e vario, affascinante e fantastico tutto dentro uno stesso ambiente. Una sorta di campo magnetico all’interno del quale La Tartaruga, per diversi anni, esercitò una potente attrazione. Lì confluirono - molti sin dalle loro prime apparizioni pubbliche - Jannis Kounellis, Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Cesare Tacchi, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Mario Ceroli, Tano Festa, Umberto Bignardi, Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Pino Pascali, Eliseo Mattiacci, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Ettore Innocente, Paolo Icaro, Fabio Mauri, Gherard Richter.

Fu Cesare Vivaldi, poeta e critico sodale della galleria, a individuare da subito quale fosse, all’interno di questa compagine, il tratto comune ai romani (di nascita o di elezione). Dedicò loro un articolo intitolato La giovane scuola di Roma, definizione divenuta virale forse al di là delle intenzioni del suo estensore che nel testo lucidamente avvertiva non trattarsi di un gruppo, semmai di un movimento, la novità del quale coglieva nell’interesse aggressivo e mordente di volgere lo sguardo alla realtà visibile.

È questa la generazione venuta dopo l’informale che diede nuova linfa all’arte attingendo ai dati oggettivi dell’ambiente e del paesaggio. Plinio De Martiis ne accolse le opere del tutto nuove e originali per materiali e modalità di fruizione. Creò tra queste e l’avanguardia del Novecento connessioni all’epoca non scontate (nel 1965 dedicò una mostra alla camera da letto di Giacomo Balla) e affiancò i giovani autori ai poeti del Gruppo 63, i Nuovissimi, anche loro alla ricerca di nuovi impasti stilistici e di ardite contaminazioni lessicali. Di questo spirito - in bilico tra opera e comportamento, tra materia e immagine, tra impegno e nichilismo - si fece sostenitore fino alla sua mostra più celebre, “Il teatro delle mostre”, nella quale, intercettando un sentire comune, saldò il binomio di arte e vita nella temporalità del teatro: ogni sera un artista diverso presentò un’opera, un’installazione o un’azione. Correva il maggio del 1968. L’editore Lerici pubblicò un bel catalogo con le foto scattate dallo stesso De Martiis, un testo di Maurizio Calvesi e brevi descrizioni delle opere di Achille Bonito Oliva. 

Nel 1963 la galleria si era trasferita in Piazza del Popolo 3 (nel mezzanino, le cui finestre si affacciano proprio sopra il portone). Lasciata questa sede alla fine del 1968, riaprì all’inizio dell’anno successivo in un locale poco distante in Via Principessa Clotilde 1/A, con una mostra intitolata “Archivio (1954-1969)” allestita con le foto del gallerista scattate negli anni. Un primo bilancio al quale ne seguirono altri. 

Nel 1971 l’attività si interruppe per riprendere dal 1974 al 1978, prima in via Ripetta 22, poi in Via Pompeo Magno 6/B con un programma ancora graffiante rispetto al contesto.

Nel 1966 Plinio De Martiis in una mostra intitolata “Roma 66 realtà dell’immagine” aveva raggruppato una decina dei suoi artisti, due dei quali, Jannis Kounellis e Pino Pascali, di lì a pochi mesi avrebbero esposto nella galleria L’Attico opere definitivamente sconfinate oltre la cornice del quadro.

“La realtà dell’immagine” è il concetto che più ci può aiutare a orientarci nella successiva attività della galleria. In diverse mostre De Martiis sottolineò la presenza di quadri e sculture. Allo stesso tempo intercettò nuovi artisti consapevoli delle avvenute rivoluzioni, ma nuovamente interessati alla possibilità di affidare il mondo alla sintesi del quadro, come Ettore Spalletti che tenne alla Tartaruga la sua prima mostra personale nel 1975. Contemporaneamente a questa sua singolare difesa della pittura, saturò la galleria di ogni altro genere di opere, sempre innovative e sperimentali, per curiosità, per naturale convivenza con esse, forse anche per sottolineare la necessità dell’incontro e dello scambio senza compromettere la complessità dei linguaggi: le musiche di Tony Ackerman, Alvin Curran, Michele Iannaccone, Gianni Nebbiosi, Giancarlo Schiaffini, Davide Mosconi, i superotto di Luigi Barzini, Anna Carini, Annabella Miscuglio, i film di Taylor Mead e di Marco Dolcetta, l’azione scenico pittorica di Antonello Aglioti con Memè Perlini, un laboratorio di poesia condotto da Elio Pagliarani (tutti i lunedì per oltre sei mesi a cavallo tra il 1977 e il 1978) e due rassegne dove la letteratura tornava a riallacciare un dialogo serrato con l’arte visiva e la performance: “Parlare e scrivere” a cura di Renato Barilli e “Corpus Scripsit” a cura di Nanni Cagnone. 

Gli anni Ottanta e Novanta lo videro trasferire la galleria in nuove sedi (via Ripetta 22 e poi Piazza Mignanelli 25), chiuse le quali strinse un sodalizio con Netta Vespignani, per cimentarsi infine nell’ultima avventura in Toscana nel Castelluccio proprietà di Benedetta Origo. 

Prima che il sipario calasse, Plinio De Martiis sfidò il suo tempo con un nuovo azzardo, la pittura cosiddetta colta o anacronistica approdata in galleria con la mostra di Franco Piruca del 1978 alla quale seguirono quelle di Stefano Di Stasio, Maurizio Ligas, Aurelio Bulzatti, Alberto Abate, Paola Gandolfi, Piero Pizzi Cannella… sempre in dialogo con qualcosa d’altro: Amelia Rosselli che legge Sandro Penna,  Guido Ceronetti che legge e commenta il suo libro veterotestamentario L’impazienza di Giobbe, i quadri di Antonio Donghi, Mario Mafai, Francesco Trombadori, Jannis Kounellis, Mario Schifano…

(Daniela Lancioni)

 


 

Titina Maselli

Galleria La Tartaruga
dal 16 aprile 1955

“Cara Titina, finalmente tue notizie, ma brutte. Ci contavo proprio che la tua mostra cadesse subito dopo Mafai. Ma pazienza; quando c’è un oceano di mezzo è il minimo che ci possa capitare”. Così Plinio De Martiis scrive il 4 febbraio 1955 a Titina Maselli che si trova in quel momento a New York. La mostra a La Tartaruga, che lui aveva previsto di fare nel mese di marzo, doveva necessariamente slittare, perché Maselli non sarebbe a quella data ancora rientrata in Italia, portando con sé proprio una serie di nuovi quadri dipinti durante il suo soggiorno negli Stati Uniti.

Maselli si era trasferita a New York nel 1952, compiuti ventott’anni. Con l’aiuto di un amico di famiglia che le aveva trovato un “cold water flat”, un appartamento senza acqua calda, aveva lasciato Roma. Si era allontanata da un entourage familiare culturalmente stimolante (la sua casa era frequentata da intellettuali, artisti, musicisti e scrittori, come Silvio D’Amico, Alfredo Casella, Corrado Alvaro, Paola Masino, Alberto Savinio, Fausto Pirandello, Corrado Cagli tra gli altri), ma anche da un ambiente artistico in cui non si era mai sentita del tutto a suo agio, animato com’era in quegli anni da infinite polemiche che non l’appassionavano tra realisti e astrattisti: da un lato Renato Guttuso e gli artisti fedeli alle direttive del Partito Comunista, dall’altro i giovani del gruppo Forma 1 e poi dell’Age d’Or, guidati da Achille Perilli e Piero Dorazio. Si allontanava anche da suo marito, Toti Scialoja, che aveva sposato, poco più che ventenne, nel 1945.

Dopo le prime due mostre personali tenute a Roma alla Galleria L’Obelisco nel 1948 e alla Galleria Il Pincio nel 1951, nel 1953 a New York Maselli aveva esposto alla Durlacher Gallery. Ma a New York, ricorderà anni dopo, soprattutto aveva dipinto e una parte di quei lavori li avrebbe riportati con sé in Italia e presentati proprio a La Tartaruga nell’aprile del 1955. Nell’elenco che compare nel piccolo pieghevole stampato per l’occasione sono indicate quattordici tele in mostra, alcune con evidenti richiami nei titoli al panorama d’oltreoceano: Montacarichi a Queensborough Bridge, Piccione a Wall Street, Grattacieli e Cortile a New York. Un solo dipinto è riprodotto nel pieghevole: il Palazzone del 1952. Non è possibile sapere se il quadro (oggi ripresentato al Palazzo delle Esposizioni) figurasse tra le opere effettivamente esposte o se fosse l’unico di cui De Martiis aveva un’immagine da riprodurre, come spesso capitava. Dalla scritta autografa che compare sul retro del dipinto risulta solo che è stato realizzato dall’artista a Roma nel 1952, quindi certamente prima della partenza per gli Stati Uniti.

Stabilire con assoluta certezza quali opere siano state presentate a La Tartaruga non è stato possibile. Nessun dipinto di quegli anni, tra i molti esaminati durante la preparazione della mostra, presenta etichette o timbri della galleria sul retro. Né è stato al momento possibile rintracciare foto dell’allestimento dell’esposizione nell’archivio dell’artista né in quello de La Tartaruga, conservato all’Archivio di Stato di Latina. Quella che si ripropone oggi è una selezione significativa di lavori che Maselli realizza in quell’arco di anni, tra il 1952 e il 1955, quando l’incontro con il panorama americano, molti anni prima che la Pop Art invadesse il mondo e prima che un generale ritorno all’immagine riguardasse molta parte dell’arte italiana, l’aiutò a precisare alcune caratteristiche e particolarità del suo lavoro. Nel 1988, ritornando con la memoria ai quattro anni passati in America, tra il 1952 e il 1954, Maselli dichiarerà: “New York la dipingo ogni giorno anche adesso; la suggestione è stata così forte (questa ipernatura) che è diventata un punto di partenza insostituibile”.

Nel ricordo del fratello Citto Maselli, Titina aveva cominciato dipingere per strada già a Roma, verso la fine del 1945, e lo faceva soprattutto di notte. Ciò che le interessava erano le immagini della città stemperate dal buio, interrotte e cadenzate da improvvisi bagliori della luce. Nel 1953 scrive: “…la città. Detriti, scritte, metallo. Detriti di uso quotidiano, minutaglia sporca per i tanti usi e spaesamenti, con disamore buttata per gli sterrati. Nella notte riscatta la sua morte per una luce improvvisa che per caso la colpisca: appare configurata nell’erbaccia come un continente luccicante, prezioso, abbagliante”. La sua immaginazione di pittrice è attirata prima dai rifiuti, fatti di oggetti e scritte, abbandonati per le strade di Roma dalle truppe americane, poi, a New York, dagli scarti della metropoli moderna, ricettacolo di “un’umanità di spiantati, di emigrati, di schiavi che diventano altro da sé spinti dalla disperazione, dall’estraniamento”. Anche i calciatori e gli atleti, che inizia a dipingere nei primi anni Cinquanta, sono immagini “di risulta”. “Non so niente del calcio in quanto tale, del gioco o del tifo: l’immagine del calciatore per me – ha spiegato l’artista - era già nei giornali effimeri buttati nelle strade, una loro illustrazione”.

Da questi scorci di città, colti di sbieco e in visioni ravvicinate, e da queste figure piegate e ferite trapela ancora un senso di sentita partecipazione. La materia della pittura densa e spessa, come solo la pittura a olio può essere, conserva ancora, a quella data, memorie degli impasti della pittura espressionista della Scuola romana e del gruppo dei “Quattro artisti fuori strada”, riunito nel 1947 da Cesare Brandi e di cui il marito Scialoja aveva fatto parte. Ma rispetto a queste ricerche tutte fondate sulla variazione tonale del colore e in contrasto con le sue opere forse più note degli anni Sessanta, nei primi anni Cinquanta c’è “pochissimo colore nei suoi quadri – scrive il regista Michelangelo Antonioni - Molto nero. I suoi rossi, i suoi blu sono faticosi. Di sera scompaiono. Solo i verdi hanno spicco. Le foglie sono vivaci macchie astratte che nascondono altre macchie, bianche o gialle: luci al neon”. Questi bagliori, di luce e di colore, si fanno strada all’improvviso e generano inaspettate apparizioni.

Renzo Vespignani, che con Maselli aveva condiviso le giovanili scorribande per la città alla ricerca d’ispirazione per dipingere, nel breve testo in forma di lettera, pubblicato sul pieghevole della mostra a La Tartaruga, scrive: “potrei osservare che la tua pittura è pericolosamente vicina all’astrazione; ma queste superfici tagliate e sfaccettate, questi elementi saldamente intrecciati, non rispondono ad un gioco formale: sono l’acciaio, i cavi, le centine, le tenebrose incastellature della tua città”. Ed è quest’ambiguità che rende queste immagini ancora oggi così interessanti, lasciandole sospese in una dimensione in cui convivono l’astrazione formale e un racconto che a tratti assume i toni cupi (ma che Maselli direbbe “ineluttabili”) dell’esistenza.

(Paola Bonani)