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Sergio Pucci
in conversazione con Daniela Lancioni
Come molti fotografi, hai due professioni: documenti per gli altri e sperimenti come autore.
Le due attività talvolta si incrociano o si sovrappongono.
Al Palazzo delle Esposizioni presentiamo il lavoro di documentazione, ma prima di introdurlo vale la pena leggere una tua dichiarazione di poetica utile anche alla lettura delle fotografie esposte in questa occasione.
“Sin dall’inizio mi sono reso conto che la tecnica fotografica rendeva le immagini autonome dal reale, quasi sganciate dalla rappresentazione, per cui, anziché come registrazione fedele della realtà, ho usato la fotografia come il mezzo più idoneo per cancellare”.
Scorrendo i documenti raccolti negli anni, affiora un vecchio ritaglio di giornale: “Tempestivo salvataggio di una aspirante suicida ieri pomeriggio a Ponte Sublicio. Un uomo, il cinquantanovenne Pucci Ferrer non ha esitato un istante e, scese le scalette a precipizio, si è tuffato in suo soccorso, raggiungendola. Se non si fosse tuffato la donna sarebbe stata travolta dalla corrente”.
Era mio padre. Un anarchico. Un artista. Il migliore scalpellino di Roma. Aveva il laboratorio a Testaccio. Faceva certi tavoli intarsiati… e le vasche di alabastro “a sfoglia di cipolla”. Si era diplomato all’Istituto d’Arte che all’epoca si chiamava Museo Artistico Industriale di Roma.
Io volevo lavorare per il cinema. Nel 1948 mi iscrissi anche io all’Istituto d’Arte nella sezione di Pittura, ma quando aprì Fotografia cambiai. Volevo fare l’operatore cinematografico, ma nel cinema farsi pagare con regolarità era difficile. Lo sapevo bene, mio fratello Mario era elettricista e lavorava per il cinema.
La pila sul fuoco la dovevo mettere, così nel 1954, due mesi dopo il diploma, ho cominciato a insegnare all’Istituto d’Arte e sono rimasto lì fino alla pensione.
Quando hai cominciato a fotografare l’arte?
Ho cominciato con i colleghi dell’Istituto d’Arte.
Ercole Drei e Leoncillo. Pericle Fazzini che era stato mio professore di plastica e aveva lo studio in Via Margutta e Alberto Ziveri che era stato anche mio insegnante e che a studio non faceva entrare nessuno. Giuseppe Uncini che insegnava da noi mosaico e con il quale eravamo molto amici.
A Ettore Colla gli faceva le foto un altro collega, ma lui non ne era contento. Una mattina venne da me e mi disse “Ho bisogno di qualcuno che sia capace di fare delle foto alle mie sculture senza che vengano sfuocate. Sei capace tu, Pucci?”.
Lavoravo per Luigi Montanarini, che era il Direttore dell’Accademia di Belle Arti, e per il mio grande amico Nicola Carrino, che insegnava al Corso Superiore per le Industrie Artistiche.
Nicola Carrino ti ha definito “il cantore di Colla, del suo candore, del suo trasparire la trasparenza solida della scultura”.
Con Colla ho avuto un rapporto di lavoro e di amicizia così profondo che dura ancora oggi dopo cinquant’anni dalla sua scomparsa.
C’è da dire che tutte le fotografie nelle quali appare in tenuta da lavoro, con la parannanza di cuoio, i guantoni di pelle, il saldatore in mano e la visiera… sono tutte costruite. Colla non ha mai messo mano alle sue opere. Dirigeva il lavoro fatto sui suoi disegni e andava in giro per ferrivecchi a scegliere i pezzi che a lui servivano.
Alcune delle foto che hai scelto sono state scattate nello studio di Alberto Gerardi. Quella dove si vedono la cappa della forgia e gli attrezzi da lavoro, è l’aula dell’Istituto d’Arte dove Lorenzo Guerrini teneva le lezioni di ferro battuto. Altre, invece, sono state scattate a Viale Parioli 12, dove Colla aveva lo studio e l’abitazione.
E le foto con le pistole?
Aveva due pistole di quelle antiche e si metteva in posa. Era tutta una commedia. Era un uomo pieno di spirito e di ironia.
Con quali altri artisti hai lavorato?
Fausto Melotti, Giulio Turcato, Bice Lazzari, Edgardo Mannucci, Guido Strazza.
Francesco Lo Savio l’ho conosciuto da Fazzini, gli faceva le foto. Era anche bravo. Con lui non ho mai avuto lunghi colloqui. Invece Tano Festa è stato mio allievo, portava i pantaloni corti quando l’ho conosciuto. Mi piaceva come carattere, anche Schifano era molto buono di cuore.
Lavoravo pure con Luca Maria Patella, anzi devo a lui la spinta a mostrare le mie opere come artista.
Ho lavorato con Eliseo Mattiacci, Carlo Lorenzetti, Piero Sadun.
Le aste di Sergio Lombardo le fotografai a casa da me e anche alcune opere di Maurizio Mochetti. Fummo Lombardo ed io a presentare Mochetti a Gian Tomaso Liverani.
Di Carlo Maria Mariani ho un vagone di fotografie. Quella che esponi è scattata al Palazzo delle Esposizioni. Sono venuto io, incaricato da Mariani, a controllare l’allestimento e ho dovuto far cambiare tutte le luci con cui erano state illuminate le opere.
Gli artisti della Transavanguardia li ho conosciuti tutti.
Come hai iniziato a lavorare per le gallerie?
Non avevo un grande interesse a lavorare per le gallerie.
Mi interessavano gli artisti. Ho sempre scelto chi fotografare. Fotografare per me non era un lavoro, ma un modo per allacciare rapporti personali e di amicizia.
Gian Tomaso Liverani me lo presentarono Ettore Colla e Topazia Alliata che allora dirigeva la Galleria Trastevere. Non era facile fotografare le lamiere di Lo Savio esposte a La Salita. Liverani una volta mi disse “Ma Pucci lei non adopera gli ombrellini?”. E io gli ho detto: “Ce li ho gli ombrellini ma non funzionano per queste opere”. Misi la lampada di fronte all’opera e riuscì a fotografarla. Alla Galleria Odyssia ho fotografato Leoncillo. Le fotografie fatte alla Marlborough le davo direttamente alla direzione, non mi è rimasto nulla. Andavo qualche volta da Angelica Savinio. All’Attico da Fabio Sargentini ho fotografato le opere di Pino Pascali, Sergio Ragalzi e Piero Pizzi Cannella.
Luisa Laureati, Giuliana De Crescenzo, Maria Colao, Mario Diacono come li hai conosciuti?
Passava il mio nome dall’uno all’altro. Ho girato un po’ tutti gli artisti e le gallerie di Roma. Ma non ho mai fotografato le inaugurazioni. Mi sono sempre rifiutato.
Come è organizzato il tuo archivio?
Non ho un archivio vero e proprio. Non mi sono mai preoccupato di ordinare questo materiale. Tante volte consegnavo pure i negativi, perché a me dava più fastidio stampare due foto piuttosto che fare di nuovo il lavoro. Uncini ad esempio aveva tutti i miei negativi.
Con che macchina fotografavi e che tipo di pellicole usavi?
Con la pellicola, ossia con il rullino, utilizzavo una Rolleiflex. Facevo anche lastre 9x12 con l’Arca Swiss. Fotografavo sempre in bianco e nero.
Stampavi tu?
Sì, sempre. Avevo la camera oscura nello studio a Testaccio, in via Evangelista Torricelli 1. L’ho lasciato due mesi fa. L’avevo preso nel 1954.
In quale formato stampavi?
Sempre 18x24.
Che carta utilizzavi generalmente??
Ferrania mat K 201, ma anche lucida K 208. La stampa era molto curata e nitida, non intervenivo in nessun modo sul negativo, se non in determinati casi.
Mi mostra alcuni negativi in ognuno dei quali tutta la superficie intorno a una scultura di Colla è colorata di rosso e mi spiega il modo in cui, prima del digitale, si scontornavano le immagini: stendendo con il pennello intorno alla scultura un rosso coprente, il new coccine. In fase di stampa quell’area non si impressionava e rimaneva bianca.
Queste foto di Colla, invece, le ho ritoccate inserendo le nuvole. Quello che oggi si fa con il computer si faceva a mano.
Mi mostra un libro dove compare una scultura di Colla fotografata sullo sfondo del cielo segnato da qualche nuvola barocca. Accanto all’immagine, è annotato a penna il procedimento adottato: “Fotografia eseguita su fondo bianco stampato con un altro negativo con le nuvole. La base è ricostruita con ritagli di carta di diversa tonalità”. Se la sovrapposizione di negativi è un processo largamente usato ancora oggi, meraviglia vedere sulla stampa fotografica che è servita per la riproduzione, la base quadrangolare della scultura ottenuta con un collage di cartoncini di diverse sfumature di grigio giustapposte per dare l’impressione dell’ombra e della prospettiva.
Hai avuto mai un assistente?
No, neanche per portarmi le borse.
Non ho mai guadagnato tanti soldi con le foto. Guadagnavo con lo scambio in opere.
Ti piaceva più fotografare gli artisti al lavoro o in posa?
I ritratti venivano spesso alla fine del mio lavoro. Mi rimanevano alcuni scatti alla fine del rullino dopo aver fotografato le opere e allora fotografavo gli artisti.
Le foto esposte di Ettore Colla sono state stampate da Sergio Pucci nel suo studio.
Le altre sono stampe analogiche realizzate per questa occasione espositiva nel laboratorio Fotogramma24 a Roma.