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Galleria Gian Enzo Sperone
“A New Sculpture by George and Gilbert” è la mostra di esordio della galleria Sperone Gian Enzo & Fischer Konrad inaugurata il 7 dicembre del 1972 in Piazza SS. Apostoli 49, in un appartamento che, nonostante fosse all’interno dell’antico Palazzo Balestra, non aveva niente di sfarzoso: controsoffitto di pannelli traforati e pavimento di graniglia. Il noto duo di artisti inglesi ne tappezzò le pareti con un disegno, ossia con una nuova scultura nella quale le loro figure comparivano non dal vivo, come in altre mostre, ma tratteggiati a carboncino all’interno di una folta vegetazione.
Nella stampa specializzata, l’apertura della galleria venne pubblicizzata con un annuncio del tutto immodesto: “Sperone Gian Enzo (born Torino, 1939) Fischer Konrad (born Düsseldorf, 1939) present ‘a new art sanctuary’ in Rome”. Approccio apparentemente spiritoso da parte di due galleristi già affermati e pieni di grinta, che sul lavoro non sembra abbiano mai scherzato.
Konrad Fischer (Konrad Lueg) aveva rinunciato alla pittura e aperto una galleria a Düsseldorf nel 1967 con la prima mostra in Europa di Carl Andre. Vennero poi le mostre di Sol LeWitt, Hanne Darboven, Blinky Palermo, Bruce Nauman, Robert Smithson, Daniel Buren, Jan Dibbets, Dan Flavin, Mel Bochner, Panamarenko, Sigmar Polke, Donald Judd, Mario Merz, Gilbert & George, Bernd e Hilla Becher, Joseph Beuys, Gerhard Richter, Alighiero Boetti, Brice Marden, Robert Ryman e di molti altri. La galleria non si limitava a esporre le opere degli artisti, il più delle volte li invitava a risiedere a Düsseldorf favorendo così la creazione di una sorta di comunità identificata con l’ultima, radicale avanguardia del Novecento. A questa Fischer dedicò anche alcuni importanti progetti museali nella veste di curatore. Le cinque edizioni della rassegna “Prospect” avviata con Hans Strelow nel 1968 alla Kunsthalle di Düsseldorf con la partecipazione delle gallerie d’avanguardia di diversi paesi e la mostra “Konzeption / Conception” curata con Rolf Wedewer nel 1969 al Museo di stato di Leverkusen. Nel corso degli anni, il gallerista rimase fedele a un’idea dell’arte legata alle pratiche concettuali e processuali e nell’ottica di una continuità dialettica con queste si avvicinò agli artisti delle generazioni più giovani: tra gli altri Wolfgang Laib, Thomas Schütte, Reinhard Mucha, Juan Muñoz, Gregor Schneider, Hans-Peter Feldman. Dopo la scomparsa di Konrad Fischer nel 1996, la moglie Marries Dorothee Franke attiva sin dagli inizi nella galleria ne ha continuato l’attività condotta oggi dalla figlia Bertha Fischer.
Gian Enzo Sperone, che da giovane aveva coltivato la poesia, dopo aver lavorato a Torino nella Galleria La Galatea di Mario Tazzoli, leggendaria figura di mercante, e diretto per un anno la Galleria Il Punto, nel 1964 aprì, sempre a Torino, la prima delle gallerie intitolate a suo nome. Un esordio impressionante con le mostre (piene di capolavori) degli artisti americani egemoni in campo internazionale, realizzate anche grazie ai rapporti con Leo Castelli e Ileana Sonnabend: Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg, James Rosenquist, Andy Warhol, Jim Dine, Tom Wesselmann. Al suo fianco sono Michelangelo Pistoletto, Piero Gilardi, Aldo Mondino e Gianni Piacentino, ne presenta le mostre insieme a quelle di altri artisti italiani emergenti della stessa generazione, tra gli altri Mario Schifano e Pino Pascali (che nel 1966 espose da Sperone i cannoni, come è noto, rifiutati da Plinio De Martiis).
Intorno alla galleria crebbe da subito un grande interesse, finanziatori (Pier Luigi Pero) e altre figure di raffinato collezionismo (Marcello e Corrado Levi, lo stesso Sperone è un collezionista appassionato di varie e molteplici forme d’arte) unirono le loro forze, mentre tra le schiere di giovani artisti si stavano compiendo passi importanti. Si abbandonò il quadro per sperimentare nuove forme d’arte che ebbero nella galleria di Gian Enzo Sperone un approdo immediato, persino una più idonea collocazione spaziale nei locali del Deposito d’Arte Presente, inaugurati nella primavera del 1968. Oltre ai lavori di Gilardi, Piacentino e Pistoletto, Sperone esponeva quelli di Alighiero Boetti, Gilberto Zorio, Giovanni Anselmo, Mario e Marisa Merz, Giuseppe Penone.
Su alcuni di questi artisti e su altri, come è noto, scriveva il giovane critico Germano Celant, sintetizzandone i tratti comuni nell’opposizione al sistema e in un’arte impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo “reale” (facendo riferimento a Marx). Conferì loro un nome - Arte Povera – con il quale venire identificati ed emergere nella ribalta internazionale dove, soprattutto in Europa, si intensificò la rete di scambi, con mostre epocali e pubblicazioni passate alla storia.
Nessuno dei nomi coniati in quegli anni, neanche quello più estendibile di Arte concettuale, riesce a definire l’insieme di attitudini in parte affini e in parte divergenti che costellano l’arte d’avanguardia come si è manifestata tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, oltre Arte Povera, Land Art, Antiform Art, Process Art, Minimal Art, Mail Art, Arte comportamentale, tutte espressioni che la galleria di Gian Enzo Sperone rappresentò attraverso gli interpreti di maggiore rilievo: Robert Morris, Robert Barry, Bruce Nauman, Douglas Huebler, Sol LeWitt, Walter De Maria, Joseph Kosuth, Mel Bochner, Lawrence Weiner, Jan Dibbets, Richard Long, Hamish Fulton, Brice Marden, Hamish Fulton, Carl Andre, Donald Judd, Daniel Buren, Robert Barry, e altri. Ciascuno di questi artisti presentò nella galleria opere da museo, alcuni le disseminarono in città, accadde ad esempio con gli statement di Joseph Kosuth o i ritratti di Braco Dimitrijević.
Negli anni, Gian Enzo Sperone ha corso. Del resto (è lui a dirlo) all’arte la tregua non si addice. Oltre alla sede torinese (chiusa nel 1981), tra il 1966 e il 1967 tenne aperta una galleria a Milano con Graziano Ghiringhelli. Nel 1972, contemporaneamente alla galleria romana avviata con Konrad Fischer, ne aprì un’altra a New York, prima da solo, poi, dal 1975, in società con lo stesso Fischer e Angela Westwater. La Sperone Westwater Gallery (così si è chiamata la galleria dopo il ritiro di Fischer nel 1982) nel 2010 ha inaugurato la nuova sede sulla Bowery in un edificio di cinque piani appositamente progettato dallo studio Foster + Partners. Un’antica abitazione a Sent in Engadina dove dal 2008 organizza mostre rarefatte nel tempo e una galleria a Lugano aperta nel 2012 (chiusa due anni dopo) sono le ultime stazioni, in ordine di tempo, della galleria Gian Enzo Sperone.
Tornando alla sede romana, nell’inverno del 1974 Konrad Fischer lasciò la galleria. L’attività proseguì con il nome di Gian Enzo Sperone in Via delle Quattro Fontane 21a, in un appartamento di Palazzo Del Drago con i soffitti affrescati e le porte dorate (si racconta sia stata la scelta di questa nuova sede a causare la rinuncia del più austero Fischer). Allo scorcio degli anni Settanta sono all’attivo di Gian Enzo Sperone anche alcune mostre nella romana Galleria Dell’Oca in collaborazione con la proprietaria, Luisa Laureati e il suo socio di allora, altra mitica figura di gallerista torinese, Luciano Pistoi. Nel 1984 Sperone spostò la galleria in Via di Pallacorda 15, nei locali al piano terra di una piccola strada del Tridente, che fu fatale al Caravaggio. Nel 2004 la chiuse e si congedò da Roma.
A scorrere i due volumi con i quali la città di Torino ha festeggiato nel 2000 l’attività di Sperone (a cura di Anna Minola, Maria Cristina Mundici, Francesco Poli e Maria Teresa Roberto, per le edizioni Hopefulmonster) fa impressione il novero e la qualità degli artisti rappresentati ai quali se ne sono aggiunti altri negli anni successivi. Scelte tempestive, artisti all’apice delle carriere (dovute anche al lavoro del gallerista), ricambi frequenti. Una naturale irrequietezza, forse. In filigrana sembra lecito scorgere gli interessi autentici, le passioni e le domande con cui Sperone ha solcato le diverse stagioni dell’arte.
Con la sua prima mostra di Cy Twombly (Torino nel 1971) affiorò il discorso sulla pittura destinato ad acquistare centralità nelle scelte della galleria, anticipate anche dall’attenzione riservata da Sperone a quegli artisti di area concettuale che per primi riconsiderarono, in maniera del tutto rinnovata, le tecniche tradizionali del disegno (Alighiero Boetti o Gilbert & George), della scultura (Giuseppe Penone) e della stessa pittura (Salvo). Ugualmente, intorno alla metà degli anni Settanta, in galleria apparvero le prove acclamate di un dialogo con l’antico (Carlo Mariani), della pratica della citazione (oltre a Giulio Paolini, Luciano Fabro, Vettor Pisani e Luigi Ontani), sino a quelle paradossali del plagio (Michelangelo Pistoletto e Vettor Pisani).
In seguito, a partire dalla fine degli anni Settanta, nella galleria si assistette alla maturazione e poi al trionfo di una nuova pittura, quella definita da Achille Bonito Oliva Transavanguardia italiana, che aveva avuto a Roma i suoi natali e che ricevette sorprendenti riscontri internazionali: Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino.
In quella stessa epoca Mario Merz presentò le sue nuove grandi pitture sfiorate da neon o fascine, Gino De Dominicis mostrò il dipinto di un enigmatico volto dagli occhi sgranati (ora nelle collezioni del Moma di New York) fronteggiare la forma tornita e immacolata di un water (1984) e Giulio Turcato con i suoi lavori recenti, nel 1988, dimostrò essere ancora un grande pittore.
La pittura sostenuta da Gian Enzo Sperone nel corso degli anni Ottanta e oltre ebbe molte diverse nature, quella di Bruno Ceccobelli, Giuseppe Gallo, Gianni Dessì, Domenico Bianchi, Julian Schnabel, Gérard Garouste, Donald Sultan, Susan Rothenberg, Ray Smith, Jonathan Lasker, Donna Moylan, José Maria Sicilia, Donald Baechler, Guillermo Kuitca, Massimo Kaufman, Peter Schyff, Peter Halley. Le mostre di tutti loro si intrecciavano nelle diverse sedi della galleria, tra Roma, Torino e New York e poi tra Roma e New York.
In seguito, le opere esposte nelle gallerie Sperone cambiarono temperatura facendo emergere una nuova sensibilità dagli oggetti. Le paradossali rivisitazioni di Wim Delvoye, le sculture di Not Vital e le opere, tra gli altri, di Mario Della Vedova, Saint Claire Cemin, Tom Sachs, Greg Colson, McDermott & Mc Gough, Kim MacConnel, Hope Atherton, Thorsthen Kirchoff, Bertozzi & Casoni. A queste mostre si alternano gli omaggi riservati all’arte italiana: Carla Accardi, Piero Manzoni, le opere colore dell’oro di Lucio Fontana affiancate ai fondi oro del Trecento, le “Quadrerie” con i dipinti italiani del Settecento e dell’Ottocento. Mentre si rinnovano le mostre degli artisti verso i quali il gallerista - pervaso di ansiosa energia, fulminante, nervoso, dotato di una temperatura alta, così lo descrive Goffredo Parise - non ha distolto il proprio interesse: Wolfgandg Laib, Richard Long, Richard Tuttle, Alighiero Boetti, Mario Merz, Julian Schnabel, Braco Dimitrievic, Bruce Nauman.
(Daniela Lancioni)
Carlo Maria Mariani
La costellazione del Leone
Galleria Gian Enzo Sperone
dal 5 giugno 1981
Carlo Maria Mariani aveva quasi cinquant’anni quando, il 5 giugno del 1981, inaugura la mostra personale nella galleria di Gian Enzo Sperone a Roma, intitolata La costellazione del Leone con riferimento al proprio segno zodiacale. La mostra è incentrata sul grande dipinto, il suo più ambizioso, che dà il titolo all’esposizione. L’opera viene concepita ed eseguita nell’arco di un anno nel suo studio-abitazione a Via Zanardelli.
Il quadro è ispirato al dipinto del Parnaso realizzato da Anton Raphael Mengs nel 1761 per la villa del cardinale Albani, che riprendeva a sua volta lo stesso soggetto dipinto da Raffaello nella Stanza della Signatura in Vaticano. Nel dipinto sono raffigurati i ritratti di alcuni dei più noti artisti della scena romana di quegli anni, tra cui lo stesso Mariani, che compare seduto al centro della composizione, vestito con il mantello verde dell’Accademia di San Luca (accademia di cui Canova e Thorvaldsen erano stati presidenti), con accanto un album di disegni e in mano uno schizzo della Medusa Rondanini. Percorrendo il dipinto da sinistra a destra si vedono Gino De Dominicis steso di spalle in primo piano e subito sopra il critico e curatore Achille Bonito Oliva con una toga rossa, mentre contempla, come Narciso, un’immagine di sé stesso. Dietro di lui compare il Castello di Genazzano sede della storica mostra del 1979 – Le Stanze - che ha di poco preceduto la consacrazione del gruppo della Transavanguardia. Alla sua destra un’allegoria della città di Roma appare accanto al ritratto del mercante Paul Maenz con indosso il famoso cappello con cui Johann Tischbein aveva ritratto Goethe disteso sullo sfondo della campagna romana. Di fronte a Maenz un putto con una maschera, un flauto in mano e i frammenti di una statua ai piedi raffigura l’alter ego di Jannis Kounellis. La faccia di Mario Diacono compare dietro l’Altare della Buona Fortuna di Wolfgang Goethe, a cui è appoggiata la figura di Gian Enzo Sperone intento a leggere una lettera. Luigi Ontani, come Ganimede, si libra nell’aria abbracciato a un’aquila, ai suoi piedi la scultura Mimesi di Giulio Paolini. Sotto il critico Italo Mussa guarda il ritratto di una musa seduta alla destra di Mariani. Ai suoi piedi giace steso per terra il corpo di un ermafrodita, sotto a cui compare una tartaruga che trascina sulla sua corazza un piccolo peso come in un’opera di Vettor Pisani Io non amo la natura. Francesco Clemente e Sandro Chia sono raffigurati accanto all’opera di Paolini e dietro le loro spalle si vede il ritratto del collezionista Giorgio Franchetti. All’estrema destra del dipinto compare l’artista americano Cy Twombly in sella a un cavallo. Appena sotto, dentro una vasca da bagno, Mario Merz è raffigurato con il corpo della scultura dell’Ercole Farnese, con accanto una fascina e in mano le conchiglie a forma di spirale.
Accanto alla tela era posto un testo dattiloscritto riecheggiante lo stile letterario dell’inizio dell’Ottocento, che rivelava, “in modo non scevro d’ironia”, il gusto e gli ideali stilistici di ciascun personaggio raffigurato senza mai nominarne nessuno. Nell’incipit del testo si legge: “Grande intrapresa per la gloria e la felicità della patria. Tragedie moderne ovvero aneddoti raccolti da ciò che vedesi in Roma nel 1980 dopo il ritorno alla pittura e all’antico”.
Allo stato attuale non è stato possibile ricostruire esattamente tutta la mostra tenutasi nella sede romana di Sperone, non ne esiste una completa documentazione nell’archivio dell’artista, né se ne è trovata documentazione fotografica negli archivi di Mimmo Capone e Vincenzo Pirozzi che allora lavoravano per la galleria.
David Ebony nella monografia che dedica a Mariani del 2001 registra la presenza in mostra del dipinto con accanto il cartone preparatorio. La notizia è confermata anche nel volume, curato da a cura di Anna Minola, Maria Cristina Mundici, Francesco Poli e Maria Teresa Roberto (Torino 2000), che ricostruisce l’attività della galleria di Sperone, in cui risulta anche che in quella stessa occasione, oltre a La costellazione del Leone, erano esposti i dipinti Ganimede del 1981 ed Eros e Psiche del 1979.
Queste opere e altre dello stesso insieme costituirono il nucleo di una serie di esposizioni organizzate nelle diverse sedi di Sperone. Il ciclo di mostre era cominciato a Torino nel maggio del 1980 con l’esposizione di dipinti, tra i quali Eros e Psiche e Ganimede, presumibilmente tutti affiancati ai rispettivi cartoni. La mostra romana, arricchita del dipinto La costellazione del Leone che Mariani termina nel 1981, viene successivamente trasferita nella Fischer-Sperone-Westwater Gallery (che Fischer era in procinto di lasciare) accresciuta da altri dipinti. La tela di Ganimede entrò in quella occasione probabilmente a far parte della collezione di Andy Warhol (il dipinto è comparso recentemente in una vendita all’asta).
Tutte queste mostre, se i dati riportati sono esatti, si basavano sul confronto tra cartoni e relativi dipinti. Affiancamento di due immagini realizzate con due tecniche tradizionali, la pittura ad olio e il disegno. Ma anche, viene da pensare, eredità concettuale espressa nel mettere in risalto il procedimento e nello svelare la fonte (non realistica ma immaginativa) dell’immagine. Anche il testo che accompagna la mostra è una modalità che si può ricondurre alle pratiche concettali. Mariani definisce oggi questo dipinto come una “performance mentale”, “una scena artistica esaltata da cui spira un’aulica fastosità”.
Nel 1981 Mariani aveva alle spalle già una consolidata carriera in parte spesa nelle prove di carattere concettuale nella quali però la componente pittorica aveva avuto sempre un suo peso rilevate. Com’era stato, ad esempio, nella mostra alla Seconda Scala di Roma nel 1973, intitolata iper / ri / cognizione, in cui erano esposti dipinti a olio raffiguranti particolari ingigantiti del corpo umano messi in relazione con altri elementi, come nel caso del quadro con l'immagine di un orecchio esposto insieme ad un registratore. O ancora, nella mostra Animula blandula vagula tenutasi sempre alla Galleria Gian Enzo Sperone nel 1977, in cui l’artista espone una serie di dipinti a olio su tela, i cui soggetti sono concepiti in relazione alla biografia di Angelica Kauffmann e, in parte, alla storia del palazzo ove ha sede la galleria. Le complesse relazioni di ciascuna opera esposta con le vicende e i personaggi del passato, sono chiarite dai testi e dalle illustrazioni pubblicati nel catalogo della mostra. Il giorno dell’inaugurazione due donne in abiti settecenteschi cantano i versi di due poetesse dell'Arcadia, che Angelica Kauffmann aveva ammirato.
Queste nuove mostre da Sperone (precedute dalla presentazione di una serie di cartoni per la prima volta da Paul Maenz a Colonia nel 1978) sono le prime occasioni nelle quali il lavoro viene interamente consegnato dall’artista ai mezzi tradizionali dell’arte. Come spiega Mariani in uno scritto del 1988: “Si trattava di una intenzione volontaria che si poneva sulla base di un atteggiamento ‘estremo’. Con la mia opposizione alle linee artistiche prevalenti nella prima metà degli anni Settanta, intendevo reagire polemicamente a quegli orientamenti che tendevano alla completa dissoluzione dell’opera nella teoria, per cui diventa una condizione di necessità quella di riproporre con spirito critico la questione del rapporto tra pittura e rappresentazione figurale”.
(Daniela Lancioni)