1971 | Incontri Internazionali d’Arte | Luciano Fabro

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Incontri Internazionali d’Arte

Gli esordi di questa associazione culturale sono ormai noti. Una quarantenne di rara bellezza, Graziella Lonardi Buontempo, lascia Napoli alla fine degli anni Sessanta dopo la separazione dal marito di cui conserverà per tutta la vita il nome. Vive a Roma con Francesco Aldobrandini di fronte all’Aracoeli, colleziona opere d’arte, viaggia, frequenta nobili, facoltosi borghesi e intellettuali. Nel giugno del 1970 visita a Montepulciano la mostra “Amore mio”, brillante prova d’esordio del trentenne Achille Bonito Oliva e ne rimane impressionata. Di lì a una manciata di mesi al Palazzo delle Esposizioni di Roma apre la mostra “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70”, curata da Achille Bonito Oliva con il coordinamento dell’immagine affidato all’architetto Piero Sartogo: una ricognizione, rigorosa e selettiva, sull’arte e sulla critica italiana dei dieci anni appena trascorsi, con un allestimento che - oltre a cancellare lo stato di incuria nel quale era abbandonato allora il Palazzo delle Esposizioni - traduceva in termini visivi ed esperienziali l’idea critica di un’arte che si nutre del negativo e lo riscatta. 

Fu quello l’avvio dell’associazione Incontri Internazionali d’Arte formalizzata con rogito notarile il 19 luglio del 1971 con l’intento, si legge nel documento, “di diffondere e di incrementare la coscienza dell’arte contemporanea in tutte le sue forme”. Sino alla scomparsa nel 2010 di Graziella Lonardi Buontempo, che ne ha ricoperto a vita la funzione di segretario generale e che, in altre parole, ne è stata l’anima, l’associazione mantenne fede ai suoi propositi. Lo fece senza interruzione e con una attività vulcanica estesa in campi diversi, soprattutto le arti visive, ma anche il cinema e la letteratura; all’avanguardia, non solo per le opere inedite che promuoveva o per quelle che invitava a riscoprire, ma anche per il modello di organizzazione adottato. Non la gestione, che invece era spesso caotica e penalizzata dalle scarse risorse a disposizione, ma l’attuazione di un’idea: la convinzione che la più radicale delle opere d’arte deve poter raggiungere nel momento fragrante della sua prima apparizione il maggior numero di destinatari possibili, diventare immediatamente cosa pubblica. 

Nel catalogo di “Vitalità del negativo”, Palma Bucarelli, Soprintendente all’arte contemporanea e direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, sottolineò che il Ministero della Pubblica Istruzione (il Ministero dedicato alla cultura non era stato ancora istituito) mai prima di allora aveva accordato il patrocinio a una mostra più esplorativa che rappresentativa, e in questo vedeva finalmente riconosciuta la funzione educativa del museo e la consapevolezza che il problema dell’arte è tutt’uno con il problema della cultura  e dell’educazione delle masse. 

Numerose volte gli Incontri portarono il nuovo nei musei o in altri luoghi destinati ad accogliere un vasto pubblico. L’episodio più eclatante fu “Contemporanea” (1973-1974), la mostra-città, il capolavoro di Achille Bonito Oliva e di tutti gli Incontri. Trecentocinquanta autori circa e dodici curatori per dieci sezioni: Bonito Oliva per l’arte, Paolo Bertetto per il cinema, Giuseppe Bartolucci per il teatro, Alessandro Mendini per l’architettura e il design, Daniela Palazzoli per la fotografia, Fabio Sargentini per la musica e la danza, Yvon Lambert e Michel Claura per i libri e i dischi di artista, Mario Diacono per la poesia visiva e concreta, Bruno Corà, Lietta Gervasio e Paolo Medori per l’informazione alternativa, più un’area chiama “Aperta” dove si avvicendavano gli artisti esordienti. Il progetto ambiva a restituire la complessità antropologica della società contemporanea: l’intera area del Parcheggio di Villa Borghese progettato da Luigi Moretti e appena completato venne messo a disposizione a titolo gratuito dalla società costruttrice e trasformato in un immenso laboratorio. Quasi tutti gli artisti approdarono a Roma per la mostra, molti montarono di persona il proprio lavoro, alcuni lo realizzarono in situ, Christo impacchettò duecento metri di Mura Aureliane. Nell’arco di tre mesi furono allestiti quaranta spettacoli, proiettati ottanta film, organizzati dibattiti e conferenze. Particolare attenzione fu riservata alla didattica e a fine mostra furono diffusi con soddisfazione i dati sull’affluenza delle scuole. Graziella Buontempo ricordava spesso la soddisfazione di aver visto a “Contemporanea” per la prima volta in Italia le carrozzine con i bambini. La titanica impresa le costò la separazione da Francesco Aldobrandini, tra i principali finanziatori degli Incontri, che vivevano di un articolato sistema nel quale confluivano apporti privati e risorse pubbliche.

Impossibile citare in questa sede anche solo accennare a tutte le iniziative che gli Incontri promossero nei musei o presso altre istituzioni, ci limitiamo ad alcune di quelle che comportarono maggior impegno da parte dell’Associazione.

“Roma interrotta” ai Mercati di Traiano nel 1977, da un’idea di Piero Sartogo con i disegni di dodici architetti sull’ampliamento ideale di Roma a partire dalla pianta settecentesca di Gian Battista Nolli.

“Identité Italienne. L’Art en Italie depuis 1959”, la grande mostra ordinata nel 1981 da Germano Celant al Centre Pompidou.

Il ciclo di mostre monografiche al Museo di Capodimonte di Napoli, curate da Bruno Corà tra il 1987 e il 1991, con i lavori appositamente realizzati per la sala dei Camuccini da Mario Merz, Daniel Buren, Carlo Alfano, Giulio Paolini, Sol LeWitt, Joseph Kosuth, Michelangelo Pistoletto, Luciano Fabro. Jannis Kounellis, Eliseo Mattiacci, Sigmar Polke.

“Arte domani. Punti di vista”, la rassegna coordinata da Pieranna Cavalchini tra il 1990 e il 1997, nata con l’idea di dare voce alle nuove generazioni di artisti e di critici e di favorire gli scambi internazionali, le cui edizioni furono curate, tra gli altri, da Cecilia Casorati, Cornelia Lauf, Aldo Iori, Agnes Kohlmeyer, Sylvie Parent, Melissa Harris.

“Immagini Italiane” la mostra sulla fotografia italiana realizzata in collaborazione con la rivista “Aperture” alla Collezione Guggenheim di Venezia nel 1993 e il progetto avviato nel 1999 di aprire La casa della fotografia a Villa Pignatelli a Napoli.

Una nuova ricognizione sull’arte italiana, a firma di Achille Bonito Oliva, intitolata “Minimalia” presentata tra il 1997 e il 1998 alla Fondazione Querini Dubois a Venezia, al Palazzo delle Esposizioni di Roma e al PS1 di New York.

L’attività dedicata al cinema condotta in massima parte da Adriano Aprà e Patrizia Pistagnesi, con le rassegne sul cinema italiano portate al Museum of Modern Art di New York e al Centre Pompidou.

Il Premio Malaparte dedicato agli scrittori stranieri, istituito a Capri nel 1983 e ancora oggi in vita.

Ognuna di queste imprese vide la realizzazione di impegnativi cataloghi. A questi vanno aggiunti alcuni volumi pubblicati dagli Incontri, come la raccolta degli scritti di Sol LeWitt curata da Adachiara Zevi.

Centro logistico per tutta questa mole di lavoro fu un locale che affaccia nel cortile del cinquecentesco Palazzo Taverna in via di Monte Giordano la cui fontana zampillante, allora ricoperta di felci e capelvenere, divenne l’immagine distintiva dell’associazione. Nello stesso locale, gli Incontri Internazionali diedero vita al Centro di Informazione Alternativa progettato da Achille Bonito Oliva e coordinato da Bruno Corà, inaugurato nel novembre del 1971. Come recita il programma stampato, il Centro assolveva a un nuovo compito d’informazione attiva e di documentazione. Mentre il lavoro di documentazione mirava a registrare eventi culturali e politici attraverso la raccolta di scritti, cataloghi, riviste, etc., l’informazione attiva veniva identificata nella presentazione diretta di opere, gesti, conversazioni e altri materiali. Nessun riferimento alle “mostre” e tali effettivamente non si possono definire le apparizioni che per oltre un decennio si sono succedute a Palazzo Taverna. A far loro da modello fu forse “Il Teatro delle mostre” di Plinio De Martiis (La Tartaruga, 1968), al quale Achille Bonito Oliva aveva collaborato. Di fatto si trattò sempre ed esclusivamente di opere, gesti, installazioni, proiezioni, dibattiti, che ebbero la durata di una serata. Talvolta accorpati all’interno di un unico programma e distribuiti nell’arco di una o più settimane nel corso delle quali le apparizioni, di natura diversa, si succedevano con ritmo serrato. 

A Palazzo Taverna passò la quasi totalità degli artisti e dei critici, italiani e non, che nel panorama internazionale, attraverso una rete di mostre e pubblicazioni soprattutto europee, venivano allora accreditati come l’ultima delle avanguardie del Novecento. Non mancarono però episodi meno noti, frutto di una conoscenza capillare del territorio. L’attività degli Incontri era governata da uno spirito socializzante che si rifletteva nella scelta delle mostre collettive e nella pluralità dei contributi pubblicati nei cataloghi, come anche nelle iniziative di Palazzo Taverna, due delle quali possono dirsi esemplari da questo punto di vista. La prima fu “Critica in atto” (6-30 marzo 1972), nel corso della quale, giorno dopo giorno, presero la parola Giulio Carlo Argan, Alberto Boatto, Luciano Caramel, Mario Diacono, Germano Celant, Renato Barilli, Italo Tomassoni, Maurizio Fagiolo, Giuseppe Gatt, Vittorio Rubiu, Filiberto Menna, Maurizio Calvesi, Daniela Palazzoli, Marisa Volpi, Paolo Fossati, Tommaso Trini, Catherine Millet, Jean-Marc Poinsot, François Pluchart, Michel Calura, Klaus Honneff e lo stesso Achille Bonito Oliva che ne era il promotore.  La seconda fu “Roma. Mappa 72” (20 novembre - 18 dicembre 1972) durante la quale si sono succeduti gli interventi, alcuni memorabili, di Ferruccio De Filippi, Cesare Tacchi (la consacrazione del suolo), Franco Gozzano, Sandro Chia, Eliseo Mattiacci, Luigi Ontani, Anna Valeriani, Patrizio Mangogna, Cloti Ricciardi (una riunione del collettivo femminista vietata agli uomini), Domenico Centaro, Laura Grisi, Sergio Lombardo, Gianfranco Notargiacomo, Alighiero Giuseppetti, Collettivo Fiore-Varrone-Gramaglia, Claudio Cintoli, Mimmo Germanà, Jannis Kounellis , Giancarlo Croce, Renato Mambor, Luca Patella, Vettor Pisani,  Maurizio Benveduti, Gino De Dominicis (cocktail per festeggiare il superamento del Secondo principio della Termodinamica).

Nel 1972 agli Incontri fecero la loro apparizione anche Andy Warhol e Joseph Beuys protagonisti entrambi di due lunghi dibattiti. Il pubblico di Palazzo Taverna, sempre consistente a giudicare dalle fotografie di Massimo Piersanti, si animava della presenza assidua di Renato Guttuso, di Alberto Moravia che è stato a lungo presidente della Associazione, di Giulio Carlo Argan e di molti altri.

Nell’arco degli anni Ottanta e per buona parte dei Novanta, Bruno Corà acquistò maggior peso nell’attività degli Incontri Internazionali d’Arte e ne improntò le scelte con un diverso modo di lavorare e una diversa attitudine. Lo si deduce dalla maggiore attenzione riservata alle singole personalità degli artisti come anche da alcune iniziative di studio e di confronto promosse con istituzioni di ricerca (CNR). Sono questi gli anni delle esemplari mostre a Capodimonte, come anche quelli durante i quali gli Incontri contribuirono a sostenere la presenza degli artisti italiani all’estero. 

L’attività a Palazzo Taverna cambiò passo alla fine degli anni Novanta quando Graziella Leonardi Buontempo decise di investire nel riordino della libreria e dell’archivio che vennero aperti al pubblico nel 2001. Il ciclo intitolato “Cielo” assicurò a quanti sedevano nella sala di lettura o di riunioni di assistere, alzando gli occhi al soffitto, all’irrinunciabile prodigio dell’arte. Cieli vennero commissionati tra gli altri a Giulio Paolini, Enzo Cucchi, Andrea Aquilanti, Donatella Spaziani. A favore dei più giovani, nel 2003, gli Incontri Internazionali stipularono un accordo della durata di cinquant’anni con la Cité Internationale des Arts di Parigi: unici italiani, all’epoca, ad avere l’atelier nello spazio no-profit creato dallo stato francese per l’internazionalizzazione delle arti.

 (Daniela Lancioni)

 


 

Fabro
Concetto spaziale d’après Watteau, 1967-71
Corona di piombo, 1968-71
L’Italia d’oro
Alluminio e seta naturale, 1971

Incontri Internazionali d’Arte
29 novembre 1971

L’intervento di Luciano Fabro del 29 novembre 1971 agli Incontri Internazionali d’Arte è il terzo di un ciclo intitolato “Informazioni sulla presenza italiana”.

L’associazione Incontri Internazionali d’Arte era stata da poco istituita e aveva esordito nel novembre del 1970 con la mostra “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70” al Palazzo delle Esposizioni di Roma a cura di Achille Bonito Oliva. Questi, evidentemente sulla scia del successo ottenuto, ricevette l’incarico di Commissario nazionale della sezione italiana della “Septieme Biennale de Paris”, per svolgerne il quale chiese di essere affiancato, negli aspetti organizzativi, dagli Incontri Internazionali d’Arte. Per la sede dell’associazione, infine, terminata la Biennale di Parigi, Bonito Oliva ideò la rassegna “Informazioni sulla presenza italiana” nella quale ripropose molte delle opere che erano state esposte a Parigi. 

La Biennale dei giovani artisti di Parigi, fondata nel 1959 da André Malraux, dopo le contestazioni del Sessantotto, si preparò all’edizione del 1971  –  commissario generale Georges Boudaille – con un regolamento sotto diversi aspetti rinnovato: anche i commissari, oltre agli artisti partecipanti, dovevano avere meno di 35 anni e al posto della precedente ripartizione per nazionalità ne era stata adottata  un’altra che  teneva conto delle nuove forme d’arte con sezioni dedicate anche ai Travaux d’équipe, all’Art conceptuel e agli Interventions. La sede espositiva, inoltre, dal Musée de la Ville de Paris si era trasferita negli hangar del Parc Floral da poco ultimati nel bosco di Vincennes.

Nel Piano critico inviato da Bonito Oliva alla direzione culturale della Farnesina, la scelta degli artisti aderisce all’idea di un’arte che si libera dal sistema costrittivo imposto dalla società e restituisce all’uomo la sua complessità antropologica attraverso il comportamento, i gesti, la fantasia.  Nella breve nota compare anche, come di rito all’epoca, un attacco all’opera intesa come “oggetto semplice o complesso (…) appagante a livello economico (…) elusivo del drammatico presente in cui l’uomo si trova a vivere”. Oltre al catalogo ufficiale della rassegna, gli Incontri Internazionali d’Arte ne pubblicarono un altro incentrato sulla partecipazione italiana, dove l’intervento del curatore vira verso il tema di una “ideologia individuale” e “anarchica” e riconsidera gli oggetti come “tracce depositate dalla fantasia dell’artista che si presentano con la cordiale estraneità degli oggetti di Borges e l’allegria di una posizione decentrata”.

“Informazioni sulla presenza italiana” inaugurò la sede degli Incontri Internazionali d’arte a Palazzo Taverna. Il titolo riecheggia quello della celebre mostra “Information” che si era tenuta l’anno precedente al Moma di New York e testimonia il generale interesse di quegli anni per la documentazione, insito nella natura di molti lavori concettuali e coltivato dalla critica in opposizione alla pratica “autoritaria” della interpretazione (motivazioni affini porteranno gli Incontri da lì a breve a costituirsi in Centro d’Informazione Alternativa). La rassegna, curata da Achille Bonito Oliva e organizzata con il coordinamento di Bruno Corà che sin dagli esordi collaborava con gli Incontri, si svolse - sul modello de “Il teatro delle mostre” di Plinio De Martiis (La Tartaruga, Roma 1968) - in un susseguirsi di interventi, uno al giorno (dalle sei di sera) e ciascuno dedicato a un singolo artista o a un gruppo. La rassegna durò nel complesso più di quattro settimane (con sosta solo la domenica).

A distanza di qualche mese (nel marzo del 1972) venne pubblicato il catalogo della rassegna corredato di sole immagini, tutte scattate dal fotografo Massimo Piersanti (il volume a cura di Achille Bonito Oliva è il primo dei Quaderni del Centro d’Informazione Alternativa).

Alla data del suo intervento agli Incontri Internazionali d’Arte, Fabro, nato a Torino e residente a Milano, ma di origine friulana, ha da pochi giorni compiuto trentacinque anni, è stato tra i protagonisti dell’Arte Povera e ha al suo attivo molte mostre e riconoscimenti anche internazionali incentrati su un lavoro che, in estrema sintesi, si può considerare fondato sulla volontà di scardinare i meccanismi automatici del pensiero e della percezione. A Roma, aveva già esposto diverse volte alla Galleria La Salita opere emblematiche, come ad esempio Mezzo specchiato e mezzo trasparente del 1965, una lastra di vetro sospesa su un cavalletto, per metà specchiante e per metà trasparente, che attraverso la visione simultanea di ciò che è dietro e davanti annulla le gerarchie che presiedono alla definizione dello spazio.

Achille Bonito Oliva lo aveva già invitato a esporre in entrambe le mostre da lui curate, “Amore mio” (Montepulciano 1970) e “Vitalità del negativo”. Al suo nuovo invito l’artista rispose non con un’azione, come era accaduto a Montepulciano dove aveva fatto risuonare per la città la registrazione “Consideratemi irresponsabile di quanto succede”, ma con un nucleo di quattro opere, per la gran parte realizzate con i materiali tradizionali della scultura e aventi un preciso riferimento iconografico. Fabro propone una sorta di summa dei suoi lavori recenti, ponendo in chiara evidenza la nuova strada intrapresa dal suo lavoro. Una raccolta esemplare con la quale dimostrava di aver preso le distanze dall’arte concettuale, almeno da una certa arte concettale che pensava di poter ignorare la materia, i colori e gli odori del mondo, e di fare i conti, in maniera più serrata, con l’immagine, con la materia senza la quale l’immagine non si dà, mantenendo fede alla consapevolezza che l’intervento dell’artista risiede nella definizione dello spazio: “ogni lavoro se non è collocato nello spazio giusto non esiste” (Luciano Fabro nella monografia dedicata all’artista da Jole De Sanna, Ravenna 1983). 

Tutti i lavori di Fabro esposti a Parigi furono poi mostrati a Roma agli Incontri Internazionali d’Arte. Più che i cataloghi della Biennale (quello francese e quello italiano), dove sono riportate altre opere che l’artista aveva pensato in un primo tempo di esporre, fanno fede le fotografie, quella scattata al Parc Floral e quelle di Piersanti scattate a Palazzo Taverna che testimoniano, inoltre, la presenza dell’artista a Roma per la sua mostra. 

L’opera Concetto spaziale d’après Watteau consiste in una tenda da campeggio con veranda, nella quale l’accesso alla camera interna è impedito da un dipinto. Nell’invito della rassegna romana è pubblicata con la doppia data 1967-1971. La prima faceva riferimento all’anno di Concetto spaziale (tautologia), l’altro lavoro di Fabro contenente nel titolo un esplicito riferimento a Lucio Fontana. Questo venne predisposto per la rassegna “Trigon” di Graz del 1967 e consisteva in due stanze perfettamente uguali una di seguito all’altra e comunicanti attraverso una porta sbarrata da una tela le cui misure eccedono quelle del vano e della quale era lasciato a vista il retro. La lettura della seconda stanza avveniva solo in fede a quanto scritto nel testo che accompagnava il lavoro.

Nel Concetto spaziale d’après Watteau a interdire l’accesso alla stanza della tenda è ugualmente un quadro, ma posizionato in modo da lasciare a vista il dipinto la cui immagine, posta nel vano della porta, ribalta i termini di interno ed esterno. Dalle carte degli Incontri, la tenda utilizzata a Parigi non risulta riconsegnata a Roma (poteva accadere in quegli anni che, in occasione di mostre, oggetti di uso comune venissero danneggiati o dispersi perché non identificati come opere d’arte). Nelle foto di Palazzo Taverna la tenda da campeggio sembra non essere la stessa tenda Moretti Flavia che compare in quelle di Parigi e che è menzionata nella corrispondenza riguardante le opere non riconsegnate. Si trattò forse del prestito di qualche amico romano? Non è rilevante stabilirlo.

Fabro aveva presentato il lavoro per la prima volta nella rassegna “Kunstzone” a Monaco nel settembre del 1971, utilizzando una tenda (la stessa di Parigi) che con ogni probabilità era quella con cui abitualmente faceva campeggio. “A Monaco di Baviera”, si legge in un suo testo, “presentai un Concetto spaziale d’après Watteau. I bavaresi, che fanno le cose in grande e con poco, trasformarono la tendopoli usata per la sagra della birra in una fiera d’arte. Io rassettai alla meglio la mia tendina di nome Flavia e, avuto in prestito un Watteau (attribuito) dall’aria fresca e dalle giuste dimensioni, la piantai, collocando il quadro nell’apertura che divide la camera dalla veranda.” (Attaccapanni, Torino 1978).

A Monaco, Fabro ebbe in prestito una scena campestre attribuita al pittore Jean-Antoine Watteau, tra i più alti interpreti del Settecento francese con il cui nome venne storicizzato il lavoro. A Roma nel 1971 a prestare il quadro, nel ricordo di Bruno Corà, fu l’antiquario Cesare Canessa. Nelle successive occasioni espositive, il dipinto da collocare nella tenda è di volta in volta cambiato. Al Palais des Beaux Arts di Bruxelles nel 1986, nelle due porte di una tenda a doppia camera, apparvero due immagini fotografiche del celebre teatro progettato dal belga Victor Horta. Al Centre Pompidou nel 1996 il lavoro prese il titolo di Concetto spaziale d’après Lorrain, dal pittore Claude Lorrain autore del dipinto impiegato. Fu in quest’ultima occasione che la tenda Flavia venne sostituita con quella che compare oggi nel lavoro.

Nella mostra attuale al Palazzo delle Esposizioni in Concetto spaziale d’après Watteau  abbiamo inserito un dipinto dell’Ottocento nel quale è raffigurata una scena di esterno, attenendoci, oltre che alla necessità di coprire il vano della porta, all’idea dell’artista di ribaltare lo spazio interno della tenda nell’esterno dell’immagine dipinta.

Della Corona di piombo del 1969-1971, apparsa in un’asta Christie’s a New York nel 2011, non è stato possibile rintracciare la collocazione e al suo posto esponiamo la prima delle due corone di piombo realizzate da Fabro, intitolata Corona di alloro. Facsimile del 1969. L’Italia d’oro e Alluminio e seta naturale (Piede) (nell’invito degli Incontri chiamato Alluminio e seta naturale) sono gli stessi mostrati a Parigi e a Roma nel 1971.

Fabro dichiarò di voler prendere “in considerazione alcune forme che erano rimaste ai quadrivi della nostra cultura: l’erotismo, il nazionalismo, l’emblema religioso, l’apparato sensitivo rituale”, nelle quali l’immagine era assegnata dal significato. Pensò fosse possibile lavorarci sopra e … “perché tutto questo non rimanesse un ibrido, come catalizzante scelse il fascino”.

La corona, simbolo regale o religioso (Fabro pensava a quelle che si depongono in onore dei caduti in guerra), diventa una moltitudine di singole foglie ritagliate nel piombo e disposte le une accanto alle altre (o le une sulle altre) a formare un cerchio, tenute insieme dal filo di ferro: un delicato e precario assemblaggio che l’artista colloca a terra negando la verticalità prediletta dai poteri e dando agli elementi, ritagliati nella più pesante delle materie, un solido appoggio.

Anche l’Italia è forma da investire di una nuova coscienza, immagine da sostanziare con una materia e da ricollocare nello spazio.  “Io mi riconosco in chiunque tenga in gran conto la forma dell’Italia”, dichiarò l’artista (non senza spirito di sfida all’indirizzo di quanti avrebbero liquidato come nazionalismo il considerarla) e, a partire dalla prima delle sue Italie realizzata nel 1969 ritagliando una cartina geografica e incollandola su una sagoma metallica, ne fece altre di materiali diversi e diversamente disposte nello spazio. Molte sono appese, perché “una forma appesa è sempre una forma poco autoritaria. Quella qui esposta, con la Sicilia e la Sardegna avvitate sul dorso, è un bronzo dorato, “perché l’oro è un ottimo maquillage su ogni forma”.

Anche Alluminio e seta naturale (Piede), come L’Italia d’oro, fa parte di un ciclo di lavori nel quale l’artista ha declinato una forma simile in immagini diverse. In quest’opera, forse più che in altre, Fabro si misurò con la pratica della scultura, rinnovandola. Scelse “il perno del dinamismo della figura” e gli diede “plasticità” con la materia e, sfrontatamente per un artista di area concettuale, la perfezionò con tecniche artistiche, riesumando l’artigianato, scegliendo deimateriali la qualità più nobile, la tecnologia più raffinata tra le più appropriate, il marmo lucidato, il bronzo polito, il vetro colorato, la seta lavorata con le finezze della sartoria…”

La novità l’aveva colta Saverio Vertone nel presentare la mostra dove apparvero per la prima volta i Piedi (Galleria Borgognona, Milano marzo 1971): “Forse Fabro ha avvertito l’esaurimento della identificazione secca tra opera e idea, e ha deciso di andarsi a cercare a mezza strada tra la partenza mentale e psicologica e l’arrivo oggettuale: nello spessore della materia e della tecnica, nella non misurabile casualità del loro incontro”. 

Una posizione e una nuova attitudine che l’artista esprimerà nel suo modo mordente e felicemente polemico: 

“Io non ho nulla da dire; ma devo tenervi lontani. Non voglio avere piagnoni attorno alle mie opere. Gradireste fossi più trasparente? Ho sperimentato quanto la trasparenza lasci i vostri occhi riposarsi sul nulla.

(…)

Sarò circostanziato! Vi spiegherò per filo e per segno i miei malumori, la mia cattiva coscienza nell’imputarvi. Dovete capirmi, vi vedo così faciloni, così approssimativi, così pedestri e strumentali.

Invece voi siete i più radicali! Ovunque arriviate non esiste frontiera, ma l’oltre!

(…)

Due tre anni fa, quando cominciai a presentare le ‘Lenzuola’ e le ‘Italie’, contrariamente a quanto ero solito, non volli dare una giustificazione alla novità del mio lavoro, volendo sperimentare quanto le persone fossero autonomamente reattive di fronte a immagini che solo la consuetudine tendeva a collocare tra le immagini convenzionali. Il risultato di questa simpatica iniziativa fu veramente imbarazzante.

Chi ha toccato questi piedi avrà notato avrà provato che le mani sentono, chi avrà visto questi piedi avrà notato che la pietra si può ascoltare; ma chi è sordo non ha pensato a toccarli, né li ha guardati con sentimento.

A chi mi chiede di scrivere sul mio lavoro non posso rispondere che da par mio. Non sono un banditore (ci tengo a confermarlo), faccio quel che più mi aggrada e mi muovo con fantasia (ci tengo a confermarlo).

Li ho fatti come meglio non si potevano fare. Fidia e Prassitele, Donatello e Buonarroti, Bernini e Canova mi sono testimoni. Non li ho portati ad esempio, ma li ho trovati esemplari” (Questi piedi non sono un’idea, “Flash Art”, maggio 1971).

(Daniela Lancioni)

 

La ricostruzione della mostra di Luciano Fabro al Palazzo delle Esposizioni è stata resa possibile grazie alla partecipazione della figlia Silvia Fabro e alla sua competenza.

I documenti degli Incontri Internazionali d’Arte consultati sono conservati presso Archivi e Documentazione Arte Museo nazionale delle arti del XXI secolo.