Sta per compiersi un trentennio dal coraggioso tributo che nel 1982 - ancora integra l'URSS - la città di Düsseldorf dedicò ad Aleksandr Deineka (Kursk 1899 - Mosca 1969) e che costituì, per colui che fu il più eminente e completo esponente del Realismo socialista nelle arti figurative, il primo riconoscimento monografico fuori dai confini russi.
Non lo si sarebbe detto, eppure quel risarcimento postumo, che parve il segnale di una necessaria rivalutazione critica da parte di un Occidente ormai proteso verso la postmodernità, in rapida fuga dalle ideologie e perciò pronto a riassorbire nell'alveo di una storia complessiva quanto rimosso in decenni di guerra fredda, trova soltanto oggi, nella mostra di Roma, il suo primo, autentico rilancio.
In patria, Deineka fu celebrato come artista esemplare, introdotto nell'empireo dell'agiografia sovietica con il conferimento del Premio Lenin, che riceve nel 1964, e il supremo riconoscimento, poco prima della morte, di Eroe del lavoro socialista. Pittore, scultore, grafico, illustratore, monumentalista, docente, saggista, teorico, Deineka attraversò trionfalmente - stagione dopo stagione - l'intero svolgersi dell'esperienza realista socialista, innovandone gli schemi linguistici e incarnandone i valori più schiettamente idealisti. Eppure, né le novità rivoluzionarie del suo linguaggio figurativo, né l'universalità delle sue iconografie di riferimento sono sin qui servite a far da ponte affinché la sua figura venisse stabilmente riguadagnata alla storia globale dell'arte del ventesimo secolo, attraverso il riconoscimento univoco del suo ruolo e del suo valore.
Deineka ha subìto a lungo gli effetti dell'avversione, così automatica da diventare un'idiosincrasia, che la critica d'arte occidentale ha nutrito verso la cultura figurativa dell'URSS, percepita soltanto come prodotto meccanico di circostanze politiche e di pressioni ideologiche e semmai rapportata all'universo del kitsch. Ancora oggi, dopo che decisivi elementi di conoscenza storica e consistenti sforzi di revisione critica sono stati lanciati nel campo degli studi, si tende fatalmente a riassumere la storia dell'arte russa del ventesimo secolo secondo uno schema che liquiderebbe come ininfluente l'intera fase sovietica: "Verso il 1910 un movimento originale, dirompente e innovativo chiamato avanguardia fa la sua apparizione in Russia; toccato il suo apogeo intorno al 1915, tale movimento - che prende la forma principalmente di pittura astratta - passa progressivamente, a partire dai primi anni venti, attraverso l'esperienza di un formalismo borghese, osteggiato in quanto tale dallo Stato sovietico il quale, nel 1932, impone l'assolutismo di un realismo propagandistico e antimoderno". In definitiva, dopo le avanguardie il nulla. Eppure, la divergenza inconciliabile tra arte sovietica e occidentale non è affatto originaria. Nel corso degli anni trenta si possono individuare un ampio numero di scambi con altre esperienze nazionali occidentali e sono particolarmente evidenti influenze e reciproche fascinazioni in campo artistico tra Unione Sovietica e Stati Uniti.
Il tentativo svolto dall'URSS di rendere dialettici rispetto al mondo i valori della società sovietica, marcandone il significato universale e il valore idealistico prima della guerra e del tragico incupirsi della dittatura staliniana, acquista una rappresentazione metaforica particolarmente efficace nelle forme del padiglione sovietico all'Esposizione Universale di Parigi del 1937, sulla cui sommità le colossali figure dell'operaio e della kolchoziana ideate da Vera Muchina dominavano lo spazio simbolico dell'esplanade parigina con insuperata magniloquenza. L'altrettanto immenso pannello pittorico, raffigurante la parata della Gente illustre del paese dei Soviet e collocato a conclusione dell'allestimento, valse in quell'occasione a Deineka un riconoscimento pubblico (la medaglia d'oro per la pittura) la cui valenza apolitica e sovranazionale risulta immediatamente evidente in rapporto all'afflato neo-umanistico dell'iconografia. La resistenza a riconoscere dignità al sistema artistico del Realismo socialista è piuttosto da considerarsi prodotto della cosiddetta "pregiudiziale moderna", conseguenza, tra le più pervicaci, della polarizzazione ideologica innescata dalla guerra fredda: in occidente solo l'arte astratta, metafora di libertà ed espressione dell'individualità creatrice, oltrecortina la dittatura di un realismo populista propagandistico legato a schemi figurativi ottocenteschi e perciò stesso stilisticamente retrogrado. Ma è proprio la forza icastica di tanta arte del realismo sovietico, prorompente di attualità narrativa nel momento esatto del suo prodursi, che una volta riconosciuta impedisce di liquidare sbrigativamente quel movimento come antimoderno. Al contrario, è acquisito che già nella critica sovietica dalla fine degli anni venti il termine realismo rappresenti il preciso equipollente del concetto di modernità. Solo essere realisti, nel paese che riteneva di aver trasformato il futuro in realtà, voleva dire essere uomini del proprio tempo. Il Realismo socialista non è infatti da considerarsi uno stile - più o meno piacevole, più o meno aggiornato - quanto piuttosto un metodo, un procedimento capace di tematizzare la vita degli uomini nel loro divenire sociale. Ma è giusto notare come tale procedimento, ovvero il tentativo da parte degli artisti sovietici (Deineka in primis) di estrarre ogni residuo formalistico dai processi della creazione artistica, non rappresenti, almeno fino alla fine degli anni trenta, un obbligo politico cui attenersi, quanto un principio ampiamente condiviso, nell'appassionata adesione a un movimento che faceva a sua volta tabula rasa della feticizzazione solipsistica e dell'assolutizzazione della prassi artistica imposte dalle avanguardie. Così come quella che (con accezione occidentale) chiamiamo arte moderna si oppone a ciò che (nella stessa accezione) viene considerata tradizione, nello stesso modo l'arte sovietica contrasta attraverso il metodo realista la sterilità e l'inattualità che il formalismo occidentale rappresenta sotto il profilo degli ideali.
Lo stesso Deineka, nel rievocare alcune impressioni dei viaggi compiuti all'estero, ricorda come tutto, in giro per l'Europa, sembrasse "un po' piccolo e vecchio", privo di quello "slancio verso un fine molto più elevato e più profondo" che invece si respirava nell'aria suo paese. Il linguaggio realista, per l'artista sovietico, è dunque un linguaggio fondamentalmente rivoluzionario che si serve strumentalmente della tradizione per "liberarsi dal dominio della forma che nostro malgrado ci riconduce al terreno di un vacuo professionalismo, strappandoci alla modernità e alla vita". È questa una delle ragioni per cui è improprio legittimare l'arte sovietica riconducendola al contesto dei diversi ritorni all'ordine degli anni venti e trenta; né l'idea di ritorno, né quella di ordine, infatti, afferiscono in alcun modo alla qualità intrinsecamente dirompente del Realismo socialista. Al contrario, è davvero labirintica la complessità degli scambi, indecifrabili al netto del dare e dell'avere, che caratterizza l'albero genealogico dei molti realismi attivatisi in Europa e in America tra terzo e quarto decennio del ventesimo secolo.
Si considerino a titolo di esempio le peculiari ascendenze del Realismo socialista "entre révolution et réaction" rabdomanticamente intuite da Jean Clair all'alba dei nuovi studi sul realismo novecentesco mondiale; ascendenze che nel quadro di una mappatura ancora oggi di grande suggestione ermeneutica collocavano il movimento sovietico in una linea derivativa intermedia tra realismo ottocentesco e (nientemeno!) cubismo picassiano, al pari di correnti radicali come Effort moderne (1929) e Forces nouvelles (1935). La "modernità sovietica" cui allude il titolo della mostra di Roma non è, perciò, un ossimoro che sposa a forza due categorie percepite come antagoniste, ma è la convinta chiave critica con cui essa intende presentare l'arte di Aleksandr Deineka, felice miscela di innovatio e renovatio. Del resto, per arrivare a una risposta che spieghi in maniera finalmente convincente l'innestarsi di istanze neo-classiche, neo-umanistiche o persino neo-romantiche nel cuore della modernità novecentesca bisognerà una volta per tutte persuadersi dell'inservibilità dell'equazione critica massimalista con cui la storia del Novecento tende tenacemente a passare in giudicato (avanguardia : rivoluzione = realismo : reazione).
Nessuna avanguardia artistica può pretendere di incarnare una legittimità rivoluzionaria, esattamente nello stesso modo in cui nessun movimento artistico rinnovativo di valori della tradizione può essere liquidato come risposta meccanica alle esigenze dei regimi autoritari. Piuttosto, per entrambe le opzioni, andranno cercate a ritroso, nell'aprirsi della crisi spirituale della seconda metà dell'Ottocento, le radici comuni di un medesimo ceppo variamente ramificatosi nel corso suo sviluppo. Sarà eccessivo definirlo programmatico, ma assume certamente un valore significativo la circostanza che vede proporre un rilancio critico di questo grande "sovietico moderno" proprio a Roma. Significativo non solo per il fatto che Roma, negli anni trenta, rappresentasse di fatto uno dei principali poli di convergenza ed elaborazione delle istanze realiste, ma proprio in virtù del suo naturale collocarsi, nella geodesia della cultura occidentale, al centro esatto della faglia tellurica risultante dall'incontro di tradizione e innovazione.
Deineka soggiornò a Roma tra il 12 aprile e il 3 maggio 1935, proveniente da Parigi e al ritorno dal viaggio ufficiale negli Stati Uniti al seguito della mostra itinerante The Art of Soviet Russia. Per chi sia convinto che l'incidenza potenzialmente decisiva dell'immagine di Roma possa (debba?) travalicare il suo carattere immanente di città-palinsesto dell'antico per proiettarsi anche sulla sua peculiare dimensione contemporanea14, le brevi ma appassionate note scritte dall'artista in occasione di quelle giornate primaverili del 1935 rappresentano una conferma à rébours di rara esemplarità. "Diavolo che città! Altro che Parigi!", scrive Deineka all'amata compagna Serafima Lycˇëva, "e non intendo riferirmi a Michelangelo o agli altri grandi [...]. Qui si guarda avanti!". Deineka non si stanca di percorrere la città a piedi, quasi incredulo di fronte al moltiplicarsi delle sorprese urbanistiche, ai continui scarti tra vecchio e nuovo, al nesso costante tra architettura, monumento e decorazione; ma è l'immagine contemporanea della città a colpirlo in modo speciale ("c'è un'interessantissima architettura moderna, severa e tradizionale; straordinariamente impressionante, per scala e planimetria, lo stadio Mussolini"). Rimanda fino a quando può la visita dei musei dove è restio a entrare, respinto dalla loro atmosfera triste e dalla patina "grigia e polverosa" che in quei luoghi si deposita sulle opere d'arte, spegnendole; mentre ovunque ammira (et pour cause) le forme della pittura murale che invecchiando non perde la forza comunicativa del suo messaggio ("è a fresco che bisogna dipingere!"). Loda con insistenza la qualità della grafica pubblica ("per le strade moltissimi manifesti, se ne incontrano di assai buoni, realizzati con gusto. Si capisce che qui vi si dà molta importanza"), cosa particolarmente significativa da parte di un artista che all'invenzione di un nuovo linguaggio grafico nell'editoria, nella pubblicistica di propaganda e segnatamente nella forma-manifesto (plakat), vettore tra i più propulsivi dell'immaginario visivo sovietico, aveva dedicato moltissima della sua energia progettuale e creativa. Deineka è sensibile all'interesse moderno della città, persino quando la osserva da un punto di vista apparentemente estraneo a ogni dimensione artistica o monumentale; lo colpisce infatti la vitalità, il dinamismo antropico che ravviva la scena urbana, entusiasmandosene assai più di quanto era riuscito a fare in America e in Francia ("di sera qui c'è ancora luce e la gente è ancora tutta per strada [...]", non come a New York "dove tutto si concentra solo intorno a Broadway", per non parlare di Parigi "dove alle otto di sera la gente si chiude dietro le persiane e per le strade rimangono solo stravaganti come me"). Dichiarazioni che, per quanto inverosimili rispetto allo stereotipo metropolitano occidentale, andranno interpretate con riferimento alla qualità più spiccatamente popolare, di massa, di quel dinamismo urbano, qualità che forse solo certo cinema neorealista aiuta a rievocare. Le carte, purtroppo, ci lasciano quasi intatta la curiosità di capire con quali occhi Deineka abbia osservato e studiato l'arte contemporanea italiana, cui nelle lettere egli non fa praticamente cenno ("gente allegra gli artisti italiani; tutto un associarsi e un litigare, come dappertutto..."). Eppure si trovò a portata di mano un'occasione eccezionale per farsi un'idea esauriente dell'attualità artistica italiana: è impensabile infatti che Deineka non abbia visitato la seconda Quadriennale di Roma che dal febbraio precedente occupava, con più di settecento espositori, l'intero Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale.
Concepita da Cipriano Efisio Oppo, la Quadriennale del 1935 risultò una perfetta fotografia del contesto artistico nazionale, con la consacrazione di Scipione, i premi a Severini e Marini, l'affermazione di Campigli e Rosai, le personali di Martini, Messina, de Pisis, Pirandello, la grande sala dei futuristi, l'esordio degli astratti. Specchio della situazione artistica presente, da Novecento agli Italiens de Paris, la seconda edizione della rassegna romana - l'ultima grande manifestazione artistica italiana in tempo di pace del decennio - fu però dominata dal gruppo trasversale dei giovani su cui Oppo investì in misura molto maggiore rispetto all'edizione del 1931. Numerosissimi i possibili momenti di interesse per l'artista sovietico, non solo per la ricorrenza - nei soggetti delle opere - di figure ritratte nello sforzo demiurgico dell'azione sportiva (Collina, Volterrani, Moschi), in quel momento al centro degli interessi di Deineka, ma anche rispetto a originali percorsi della figurazione realista, intrapresi tanto in scultura (Messina, Griselli, Romanelli), come in pittura (Capogrossi, Pirandello, Corazza). E c'è da scommettere che qualcosa in più di un sussulto gli abbia provocato l'imbattersi nel Guidatore di Sulki di Farpi Vignoli, la spavalda figura di auriga, rappresentata col piglio pop di un moderno kartista, che accoglieva il visitatore nella Rotonda del Palazzo delle Esposizioni, ridisegnata per l'occasione dall'intervento severamente razionalista di Pietro Aschieri.
Tre quarti di secolo dopo quel soggiorno, Deineka ritorna al Palazzo delle Esposizioni, in quello stesso luogo dove incontrò e si confrontò con l'arte contemporanea italiana, per un nuovo incontro e confronto con il presente. Una verifica visiva e conoscitiva che, grazie all'eccezionale completezza dei materiali messi a disposizione dalla Russia, incontra tutte le condizioni necessarie a innescare un'auspicata (io la ritengo certa) ripartenza della sua fortuna critica.
Matteo Lafranconi