Con adamantina semplicità l’artista ha dichiarato di immaginarsi impotente al di fuori dell’ambiente dal quale trae nutrimento. A riprova di questo, innumerevoli indizi collegano le sue opere al resto del mondo: strumenti di lavoro, abiti senza tempo o alla moda, statue e pitture antiche, maschere, personaggi immaginari, compositori…
Saldati in lavori che sono l’espressione di un individualismo assoluto, questi indizi svelano eredità, influenze, impressioni, scambi… ricevuti, di volta in volta, alla ricerca di un'identità, per appartenenza generazionale, per desiderio di espatriare, per curiosità, per caso... attingendo alle fonti originarie, ma anche, per ammissione dello stesso Jim Dine, alle varianti e alle manipolazioni attraverso le quali storie, immagini e suoni si diffondono e si tramandano.
A questo artista colto, disponibile all’incontro e consapevole delle dinamiche della trasmissione culturale, avremmo voluto dedicare un ampio programma di “accadimenti” da distribuire nell’arco temporale della mostra. In ragione delle norme sul distanziamento sociale istituite per fronteggiare la pandemia, questo programma non si è potuto svolgere, ad eccezione della rassegna cinematografica dedicata al regista americano John Cassavetes e di due conferenze che si sono svolte prima del cosiddetto lockdown.
Di contro, sono state messe in cantiere nuove iniziative e molte di quelle che erano state programmate hanno subito una metamorfosi. I loro autori le hanno trasformate in un momento di riflessione o di iniziazione, così da renderle accessibili a un altro linguaggio, quello digitale e affinché se ne potesse fare esperienza, invece che dal vivo, online.
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Entrambe le conferenze che si sono tenute durante il primo mese di apertura della mostra, hanno offerto la possibilità di rintracciare la presenza di un tessuto connettivo attraverso il quale guardare all’opera di Jim Dine.
Prendendo spunto da uno dei dipinti esposti, British Joys (A Picture of Mary Quant) del 1965, sulla cui tela è appeso un abito della stilista di culto della swinging London citata nel titolo, Clara Tosi Pamphili rintraccia i legami intercorsi negli anni Sessanta tra arte visiva, musica, moda, rivolte sociali e mercato.
Claudio Zambianchi nella sua conferenza conduce l’analisi sull’impiego degli oggetti nell’opera di Jim Dine, facendola precedere da un’indagine su Jasper Johns e Robert Rauschenberg, autori con i quali Dine ha condiviso scelte significative e temperie culturale.
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Il pianista Fabrizio Ottaviucci introduce e interpreta tre capisaldi della musica contemporanea: il piano preparato di John Cage, la Musica aleatoria, Il Minimalismo di Terry Riley.
Come i tre concerti da dedicare a Jim Dine e cancellati a causa dell’emergenza sanitaria, anche questi appunti sono tutti riferiti a compositori, tra i più radicali e innovativi del Novecento, accostabili all’artista americano per contesto e linguaggio.
Nel suo racconto e poi nell’esecuzione musicale, Ottaviucci offre diverse chiavi di accesso per ascoltare i brani. Illustra metodi e processi legati alla loro composizione e rintraccia il pensiero che li ha determinati. Di questa musica eccezionalmente aperta al caso e all’apporto dell’altro, il pianista svela infine con limpidezza le tappe del suo sensibile lavoro di interprete.
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Le 4 performance previste come parte degli "accadimenti" che avrebbero dovuto accompagnare la mostra di Jim Dine si svelano qui in nuova forma. Ognuno degli artisti ha proposto un approfondimento del proprio lavoro per questa dimensione sospesa, un "battito" che richiama la pulsazione che sarebbe dovuta avvenire dal vivo. Qui i progetti si aprono a nuove sfaccettature, guardando al futuro o al passato, facendoci entrare in diversi modi nei percorsi dei quattro artisti. Jacopo Jenna, Annamaria Ajmone, Ula Sickle e Myriam Laplante attraverso parole, suoni, immagini, amplificano qui la relazione con l’oggetto performativo e ne svelano possibilità nuove, segrete, in grado di evocare e arricchire il momento in cui tornerà possibile l’incontro fisico con i loro lavori.
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© Azienda Speciale Palaexpo. Foto Paolo Darra
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Quanti Pinocchi! Così il poeta e studioso Valerio Magrelli prende l’abbrivio per un racconto sulle innumerevoli interpretazioni e metamorfosi di cui è stato investito il personaggio di Collodi. Un precipitato di varianti e di trasformazioni che condividono con il semiologo Paolo Fabbri la tesi del “mitismo” di Pinocchio: dalle analisi giuridiche alle tesi del filosofo Emilio Garroni, dal Pinocchio ultraterreno e occulto visto da Giorgio Manganelli, al Pinocchio sciamanico di Jacqueline Risset, dalle traduzioni di Pinocchio in lingua latina al tautogramma di Umberto Eco, dal Casanova di Fellini definito dal suo autore “un Pinocchio che non diventa mai uomo”, alla Calamita cosmica di Gino De Dominicis e ai Pinocchio di Jim Dine.
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