Cramps Records / diverso n. 5, 1976 sintetizzatore Paolo Tofani assistenza di studio Piero Bravin Sony Music, 2016
32' 40"
Il titolo e il testo derivano da Il libro di Metrodora donato a Stratos da Gianni Emilio Simonetti, un trattato di epoca bizantina sulle malattie delle donne attribuito alla medichessa Metrodora vissuta nel vi secolo d.C.
Metrodora è il primo album di sola voce dell’artista. Non mira a comunicare tramite moduli espressivi tradizionali, ma a liberare l’uso della voce dall’idea che essa debba veicolare significati verbali ed esprimersi secondo canoni prestabiliti. Stratos è convinto che si possa cantare la voce esattamente come si suona uno strumento:
Metrodora è il suo primo esperimento compiuto in cui il canto è espressione di pura libertà che diventa forza ed energia primigenia. Come scrive Stratoso nelle note di copertina:
“Oggi si parla della voce come di uno strumento difficile da suonare, ma contrariamente a qualsiasi altro strumento che può essere riposto dopo l’uso, la voce non si separa mai dal suo proprietario e quindi è qualcosa di più di uno strumento. L’ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche. È ancora molto difficile scuoterlo dal suo processo di mummificazione e trascinarlo fuori da consuetudini espressive privilegiate e istituzionalizzate dalla cultura delle classi dominanti [...]. I materiali qui registrati vanno intesi come proposte di liberare con la maggior naturalezza possibile l’uso della voce. Per questo non si sono presi in considerazione ‘trucchi tecnologici’: per modificare il timbro della voce sono stati adoperati soltanto una corda, una cartina Rizla per sigarette e un bicchiere di acqua. Se una ‘nuova vocalità’ può esistere dev’essere vissuta da tutti e non da uno solo: un tentativo di liberarsi dalla condizione di ascoltatore e spettatore cui la cultura e la politica ci hanno abituato. Questo lavoro non va assunto come un ascolto da subire passivamente, ma come un gioco in cui si rischia la vita”.