Gli esordi dell’avanguardia americana
Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945–1980 illustra gli snodi principali dello sviluppo dell’arte americana in un periodo di grandi trasformazioni nella storia degli Stati Uniti: un’epoca segnata da prosperità economica, rivolgimenti politici e conflitti internazionali, oltre che da un’esaltante fioritura culturale. La mostra prende le mosse dagli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando l’ascesa dell’Espressionismo astratto iniziò ad attrarre l’attenzione internazionale su una cerchia di artisti attivi a New York e gli Stati Uniti iniziarono ad affermarsi come centro globale dell’arte moderna. Dopo di allora, nell’arte americana si assiste a una vivace proliferazione di diverse pratiche estetiche: dall’irriverente entusiasmo della Pop Art per l’immaginario popolare fino alle riflessioni sul significato dell’immagine che caratterizzano l’Arte concettuale negli anni sessanta; dall’estetica scarnificata del Minimalismo alle sgargianti iconografie del Fotorealismo negli anni settanta. Pur producendo opere profondamente diverse tra loro, tali movimenti furono accomunati da un impegno sostanziale ad indagare la natura, il senso e le finalità dell’arte. Nel prendere in esame quest’epoca cruciale per la storia dell’arte americana, la mostra rivela anche il ruolo svolto dal Solomon R. Guggenheim Museum nel dar forma a tale sviluppo grazie al costante sostegno offerto agli artisti emergenti. I dipinti, le sculture, le fotografie e le installazioni in mostra, provenienti in primo luogo dalla collezione permanente del museo di New York, rappresentano gli interessi specifici dei singoli curatori, collezionisti e studiosi che hanno promosso l’arte contemporanea del loro tempo, lasciando la loro impronta sull’istituzione. ll percorso espositivo riflette inoltre l’evoluzione del Guggenheim che, in parallelo all’affermarsi dei più vivaci movimenti estetici del dopoguerra, da vetrina americana della pittura astratta europea passa ad essere centro internazionale di riferimento per l’arte moderna e contemporanea. Un’evoluzione che in mostra è messa in particolare evidenza da una significativa selezione di opere provenienti dalla Peggy Guggenheim Collection. Nelle prime due sale viene presentata la varietà di approcci all’astrazione nel decennio che segue la Seconda Guerra Mondiale. La denominazione “Espressionismo astratto” comprende un ventaglio di correnti culturali nell’America del dopoguerra che nel loro insieme fecero di New York la capitale dell’avanguardia. Molti degli artisti qui esposti, tra cui Jackson Pollock, William Baziotes e Mark Rothko, presentarono la loro prima mostra presso Art of This Century, l’influente galleria–museo fondata a New York dalla nipote di Solomon Guggenheim, Peggy.
La New York School
Nel 1942 Peggy Guggenheim aprì una galleria–museo a New York, denominata Art of This Century. Tra i pochissimi centri cittadini che in quell’epoca esponevano arte moderna, la galleria allestì mostre innovative che contribuirono ad alimentare il dialogo tra gli artisti dell’avanguardia europea, fuggiti a New York durante la guerra, e una generazione più giovane di pittori americani tra cui William Baziotes, Arshile Gorky, Robert Motherwell, Jackson Pollock e Mark Rothko. Questi artisti, insieme ad altri della stessa cerchia, divennero collettivamente noti come “New York School”. Negli anni quaranta, abbandonato lo stile del Realismo sociale che era stato predominante nel decennio precedente, essi diedero il via a una nuova pittura astratta, misuratasi su un’ampia gamma di esperienze precedenti comprendenti, oltre a Cubismo e Surrealismo, anche i murales messicani e l’arte dei nativi americani. L’accento surrealista sull’inconscio si sarebbe rivelato riferimento importante per gli artisti della New York School. Molti abbracciarono le varianti della tecnica surrealista dell’automatismo, escludendo l’approccio consapevole al processo creativo, con l’obiettivo di accedere alle profondità insondabili della psiche. Le forme astratte e gestuali dei dipinti sgocciolati di Pollock, come Untitled (Green Silver) [Senza titolo (argento verde)], 1949 ca., o quelle di Composition [Composizione], 1955, di Willem de Kooning comunicano una straordinaria sensazione di improvvisazione e di spontaneità: opere come queste vengono interpretate da molti critici come l’espressione diretta della soggettività dell’artista. I sereni campi di colore di Rothko, come in Untitled [Senza titolo], 1947, trasmettono un sentimento spirituale attraverso forme universali e astratte. Nel 1947, dopo soli cinque anni ma non senza aver lasciato la propria impronta sulla scena artistica newyorkese, Peggy Guggenheim chiuse Art of This Century per trasferirsi in Europa. Molte delle opere della galleria facevano già parte della sua collezione personale, che nel 1976 andò ad arricchire il vasto patrimonio della Solomon R. Guggenheim Foundation. Le opere in mostra tracciano in modo estremamente dettagliato la mappa delle lotte e dei progressi compiuti dalla New York School in un’epoca in cui il corso della pittura americana e il suo posto nel canone del modernismo erano tutt’altro che scontati.
L’astrazione negli anni sessanta
Verso la fine degli anni cinquanta, sulla scia della New York School, si andò affermando una nuova tendenza della pittura astratta americana denominata “Hard Edge” (traducibile in italiano come “bordo rigido”) o anche “post–pittorica” in base alla nettezza geometrica delle composizioni e alla piattezza delle superfici di colore; tale corrente prendeva le distanze dall’immediatezza e dalla forza gestuale propria di artisti come Pollock o de Kooning. Nel 1966 il Solomon R. Guggenheim Museum di New York presentò una mostra intitolata Systemic Painting che faceva il punto su questa nuova generazione di astrattisti. Nel presentare i lavori di artisti come Frank Stella e Kenneth Noland, il curatore della mostra Lawrence Alloway mise in evidenza l’esaurimento dell’impulso espressionista proprio della New York School, sostituito da una ricerca incentrata sui fondamentali della pittura: linee, superfici, colore, forma della tela. Nella prospettiva critica di Alloway, i colori puri e l’ordine rigoroso di composizioni come Harran II (1967) di Stella non esprimono null’altro che la logica del “sistema” preordinato che sottende l’opera e guida il processo creativo dell’artista. Ciò non significa che i pittori astratti degli anni sessanta avessero completamente rinunciato alla ricchezza estetica caratteristica della New York School. L’opera di Morris Louis 1–68 (1962) esemplifica la tecnica a macchie da lui sviluppata, detta “soak stain” (letteralmente “macchia per assorbimento”); il procedimento consisteva nel versare colore molto diluito su tele di grandi dimensioni ancora non preparate, facendolo scolare sulla superficie dall’alto verso il basso fino a intriderla. Gli incorporei campi di colore ottenuti con questo metodo rivelano in effetti complessità e sottigliezze cromatiche in grado di rivaleggiare con quelle di Mark Rothko. Per altri artisti il vocabolario ridotto all’essenziale della Systemic Painting (pittura sistemica) costituì il punto di partenza per un’indagine sui rapporti che l’opera stabiliva con il contesto architettonico da essa occupato. Ricondotta alle sue più asciutte componenti strutturali, la pittura sistemica convoglia l’attenzione dell’osservatore verso l’esterno, oltre i parametri della tela in direzione dello spazio circostante. Uno tra i primi a sfruttare il potenziale estetico di questa dinamica fu Ellsworth Kelly. Nelle sue opere il confine tra bidimensionalità della pittura e tridimensionalità della scultura tende a sfumare. Il suo Orange Red Relief [Rilievo Rosso Arancio], 1959, aggetta dalla parete, trasformando la superficie dipinta, piatta e monocroma, in qualcosa che si avvicina molto a un rilievo.
Pop Art
A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e per tutti gli anni sessanta gli Stati Uniti vissero una fase di rapida crescita economica che rinvigorì fortemente la cultura del consumo. Ciò si vide presto riflesso nel lavoro di molti artisti che reagirono a questo contesto di commercializzazione diffusa inglobando immagini della cultura di massa e ricorrendo a nuove tecniche di produzione artistica a imitazione (o parodia) dei metodi industriali. Questa tendenza, denominata Pop Art, traeva ispirazione dall’universo iconografico delle riviste popolari, della cartellonistica, della pubblicità, del cinema, della televisione, del fumetto. Artisti come Roy Lichtenstein e Andy Warhol rifiutarono il gesto spontaneo dell’estetica della New York School per creare opere ispirate alla logica impersonale della stampa commerciale e della produzione in serie. Molti dei lavori qui esposti sono pervasi di umorismo, spirito e ironia, e vanno letti come una celebrazione sfrontata, e al tempo stesso come una critica sferzante, della cultura popolare. Il coinvolgimento del Guggenheim con la Pop Art risale agli esordi del nuovo movimento. In particolare, la mostra del 1963 intitolata Six Painters and the Object (Sei pittori e l’oggetto) curata da Lawrence Alloway — che alla fine degli anni cinquanta aveva contribuito a coniare il termine “Pop” — rappresentò in quella fase cruciale un gesto decisivo di legittimazione istituzionale. Alcuni degli artisti rappresentati in questa sala esposero in quell’occasione; tra questi Robert Rauschenberg che con il monumentale dipinto Barge [Chiatta], 1962–63, surclassò in dimensioni anche i più grandi tra i dipinti dell’Espressionismo astratto. Qui Rauschenberg ricorse alla serigrafia per trasferire direttamente sulla tela larga quasi dieci metri una serie di immagini fotografiche (infrastrutture, dipinti degli antichi maestri, figure di atleti in movimento) combinandole con ampie strisce di pittura sgocciolata e brani di testo, in modo di creare un campo visuale intenso e dinamico. La Pop Art come movimento si esaurì alla fine degli anni sessanta, anche se le opere più tarde di molti dei suoi esponenti continuarono a rappresentare una sorta di commentario della cultura contemporanea. Ad esempio, l’opera di James Rosenquist, The Swimmer in the Econo–mist [Il nuotatore nell’Econo–mist], 1997–98, commissionata per il Deutsche Guggenheim di Berlino, presenta un tableau di immagini derivate dai media e di citazioni del precedente lavoro dell’artista. È un ritratto della Germania, del suo presente dinamico e del suo ottimismo per il futuro e comunica l’epica tecnologica, politica ed economica del secolo appena trascorso.
Minimalismo
Sviluppatosi negli anni sessanta parallelamente alla Pop Art, anche il Minimalismo segnò una rottura con l’estetica espressionista della New York School. La scultura minimalista è contraddistinta da forme geometriche elementari ottenute da materiali industriali sui quali la mano dell’artista lascia solo minime tracce. Rinunciando all’illusione e alla rappresentazione mette in primo piano l’esperienza dello spettatore nel suo incontro con l’oggetto artistico puro all’interno dello spazio espositivo. Donald Judd, spesso ritenuto l’artista minimalista per antonomasia, progettò cubi e volumi rettangolari accuratamente rifiniti, commissionandone la realizzazione a produttori industriali. Questi “specific objects” (oggetti specifici), così erano definiti dall’artista, venivano poi frequentemente organizzati in configurazioni seriali tese ad aggirare la nozione tradizionale di composizione artistica. Lo spazio tra le forme metalliche rettangolari di Untitled [Senza Titolo], 1970, per esempio, si basa sulla sequenza matematica nota come “serie di Fibonacci”, successione di numeri interi naturali in cui ciascun numero è il risultato della somma dei due precedenti (0, 1, 1, 2, 3, 5, 8 eccetera). Analogamente anche Dan Flavin per le sue strutture di tubi al neon impiega materiali di produzione industriale. Il suo Untitled [Senza Titolo], 1966, progettato per occupare un angolo dello spazio espositivo, si sottrae alle modalità convenzionali di esposizione dell’arte e gli immateriali raggi di luce che emana sembrano dissolvere i limiti dell’architettura. Dimensionate per rapportarsi alle misure del corpo umano, queste opere sollecitano la percezione dell’osservatore nello spazio e nel tempo reali: è il caso della scultura a terra di Carl Andre, Fifth Copper Triode [Quinto Triodo di Rame], 1975, che invita lo spettatore a camminare sulla superficie delle lastre metalliche. Come la scultura, così anche la pittura minimalista distilla il mezzo pittorico riducendolo alle sue componenti essenziali, attraverso il ricorso frequente a superfici monocrome: è il caso di Allied [Alleati], 1966, di Robert Ryman e di Circle Painting 6 [Cerchio 6], 1973, di Robert Mangold. Tra i primissimi collezionisti che nel corso degli anni sessanta si appassionarono alle opere di Mangold, Ryman, Flavin, Judd e dei loro contemporanei va annoverato il conte italiano Giuseppe Panza di Biumo che concentrò nella residenza di famiglia a Varese una delle più importanti raccolte al mondo di pittura e scultura minimalista, post–minimalista e concettuale nonché di Process Art. In questa sala e nella sala successiva è esposta una selezione delle 389 opere della collezione Panza entrate al Guggenheim nel 1991–1992 grazie ad acquisti e donazioni; un incremento particolarmente importante che rappresenta un’ulteriore dimostrazione del costante impegno che l’istituzione ha rivolto all’arte americana di quel periodo.
Post–minimalismo e Arte concettuale
Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo molti artisti americani si posero interrogativi provocatori sulla natura e sul significato dell’arte, adottando nuovi mezzi espressivi, impiegando materiali non tradizionali e creando opere d’arte effimere destinate ad alterarsi o a corrompersi con il tempo. Alcuni di loro si spinsero a ritenere che il proprio lavoro potesse esistere soprattutto (o soltanto) come idea o concetto immateriale. Molte di queste pratiche radicalmente nuove costituivano una critica implicita al sistema dell’arte e, in particolare, ad istituzioni come musei e gallerie, concepite per l’esposizione di oggetti permanenti. Il termine “Post–minimalismo” fa riferimento a una serie di pratiche scultoree che rappresentarono una risposta, uno sviluppo e, al contempo, una reazione critica all’estetica del Minimalismo. Come gli oggetti minimalisti fabbricati con la massima precisione da Donald Judd, così anche le sculture di Richard Serra ricorrono a materiali industriali, enfatizzando però il processo fisico della loro produzione e le qualità essenziali dei materiali impiegati. Nel suo Template [Sagoma], 1967, per esempio, tre pezzi di gomma vulcanizzata fissati con un gancio alla parete scendono a terra con un drappeggio: la materia interagisce quindi con la forza di gravità per determinare la forma finale dell’opera. A partire da questo accento sul processo di creazione dell’opera, alcuni artisti arrivarono a concepire la produzione e la fruizione dell’opera d’arte nei termini di un’esperienza temporale che sconfina nella performance teatrale. In Live–Taped Video Corridor [Corridoio con video con ripresa in diretta e registrata], 1970, di Bruce Nauman lo spettatore completa l’opera camminando nello stretto passaggio. Opera interattiva più che scultura vera e propria, il corridoio di Nauman propone uno spazio che risulta spiazzante, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Il conte Giuseppe Panza di Biumo fu uno dei primi collezionisti a sostenere gli artisti post–minimalisti alla fine degli anni sessanta, radunando altresì una collezione pionieristica di arte concettuale di cui si vedono in questa sala diversi esempi. Privilegiando l’idea sia rispetto al materiale che rispetto alle caratteristiche sensoriali, gli artisti concettuali misero in discussione il primato dell’oggetto d’arte come esemplare unico. Il concetto di arte come linguaggio e quello di linguaggio come arte stanno al centro del lavoro di artisti come Lawrence Weiner e Joseph Kosuth. Per Weiner, la presenza materiale viene del tutto eliminata ed è il linguaggio stesso a diventare mezzo artistico della scultura. Le installazioni testuali dell’artista — come EARTH TO EARTH ASHES TO ASHES DUST TO DUST [TERRA ALLA TERRA CENERE ALLA CENERE POLVERE ALLA POLVERE ], 1970, visibile nella Rotonda del Palazzo delle Esposizioni — descrivono processi materiali e condizioni ambientali, oltre a delineare lo spazio. La responsabilità della realizzazione dell’opera passa così al pubblico, libero di immaginare i materiali o le azioni a cui ci si riferisce.
Fotorealismo
Tra le molte eredità della Pop Art va annoverata, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, anche l’ascesa della pittura fotorealista. Sotto la direzione di Thomas M. Messer, il Guggenheim fu in prima linea nell’acquisire opere di pittori fotorealisti quali Robert Bechtle, Tom Blackwell, Chuck Close ed altri. Gli artisti che adottarono questo metodo usavano la fotografia come mezzo per registrare le informazioni, poi trasposte su tele di grandi dimensioni, traducendo in questo modo immagini meccanicamente riproducibili in pitture a olio realizzate a mano con estrema precisione. Nel perseguire un’idea di stretta verosimiglianza, i pittori fotorealisti operavano con lo stesso distacco emotivo degli artisti Pop con i quali avevano in comune anche il genere di immagini di riferimento, il più delle volte legate ad aspetti della vita quotidiana in America. Una realtà che nei dipinti fotorealisti è doppiamente rimaneggiata, prima come fonte fotografica, poi come dipinto. A differenza della Pop Art, tuttavia, le opere fotorealiste non presentano l’elemento mondano in chiave ironica o glamour; piuttosto, nel riprodurre il modo in cui la fotografia registra la realtà, perseguono un’obiettività assoluta. I dipinti di Tom Blackwell, come per esempio Little Roy’s Gold Wing [La Gold Wing del piccolo Roy] 1977, si concentrano sulle cromature scintillanti e sulle superfici metalliche di automobili, aeroplani o motociclette e le rappresentazioni ingigantite che Charles Bell propone di giocattoli, biglie e distributori di chewing gum — come in Gum Ball No. 10: “Sugar Daddy” [Distributore di chewing gum n. 10: ‘Paparino’], 1975 — mostrano altrettanto virtuosismo nella resa della luce riflessa dai confetti e dalla plastica. La varietà degli approcci al fotorealismo è evidente nel grande ritratto a olio di Chuck Close Stanley 1980–81. L’opera ritrae un commesso viaggiatore che l’artista incontrò sulla spiaggia mentre i loro bambini giocavano insieme. Lavorando a partire da una fotografia del soggetto, Close trasferì l’immagine su una griglia, e da questa alla tela, attraverso una stesura sistematica di puntini colorati. Se lo schema astratto all’interno di ciascuno dei quadrati della griglia evoca stili pittorici più vicini all’Espressionismo, Close nel suo metodo di lavoro resta però fedele alla riproduzione meccanica della fotografia, senza concedere spazio alla spontaneità o all’emozione.