Visioni interiori
saggio di Kira Perov
Sono passati trentun anni da quando Bill Viola fece la sua comparsa nel mio studio all’università di La Trobe a Melbourne, per partecipare a una mostra di videoarte che avevamo allestito insiema a un collega del dipartimento di Nuova musica, in quello che in Australia era allora considerato l’ambiente universitario più radicale.
L’opera di Bill Viola non assomigliava a nessun’altra che avessi visto in precedenza.
Essa si rivolgeva a qualcosa di profondo, nascosto, un luogo sconosciuto che non ero abituata a frequentare, quando mi concedevo di sostare scoprivo un paesaggio nuovo, che di norma io non riuscivo a scorgere. In esso, il tempo e lo spazio erano alterati, mentre la luce rendeva immobili ed eterne le cose e il suono oltrepassava la normale facoltà uditiva. Realizzai che quel mondo mi era familiare quanto i miei sogni.
Entrare nello spazio di Bill Viola vuol dire rientrare nel proprio spazio interiore: un luogo insieme pubblico e privato. Entrarvi non è faticoso; il sollievo che si prova nel riuscire ad abbandonarsi è la riuscita dell’opera per ogni spettatore a livello personale. L’opera non parla a tutti nello stesso modo, ma i suoi effetti, consapevoli o inconsci, possono essere profondi e duraturi. Alcuni la utilizzano semplicemente come un tempo per se stessi, o una fonte di consolazione in un momento difficile; per gli altri crea uno spazio adatto alla meditazione, alla contemplazione, in qualche caso a un’esperienza mistica. Il linguaggio è universale, l’argomento una questione di vita o di morte; l’immagine in movimento ci trasporta; il suono ci avvolge, mentre la voce declama senza interruzione. Sia che siamo fisicamente immersi nell’ambiente sia che ci troviamo di fronte a uno schermo, è quasi impossibile non essere attirati nell’interno.
E dunque come fa Bill a rivelare le sue visioni interiori, visioni che suscitano in noi reazioni così complesse? Come fa a creare quegli ambienti che a noi riesce così facile abitare? Quando sono entrata in contatto con la sua opera per la prima volta non erano queste le prime domande che mi venivano in mente, ma negli ultimi tre decenni, da quando Bill e io abbiamo deciso di metterci in viaggio insieme, ho il privilegio di essere diventata parte della risposta.
Ho imparato che non ci sono trucchi né giochi di prestigio: tutte le immagini sono prese dalla realtà; vero fuoco, vera acqua, vere tempeste, veri diluvi. Bill aveva capito già da qualche tempo che le domande più interessanti di solito sono proprio quelle che ti trovi lì davanti, presenti sia nel mondo umano, sia in quello non umano, e non c’è da fare altro che guardare. Ed è quello che abbiamo fatto.
Il mondo esterno
Le prime opere hanno le loro radici in osservazioni ed esperienze che abbiamo a lungo condiviso, nei molti anni passati a viaggiare per il mondo con una telecamera e un registratore: catturare il modo in cui una montagna vede la luce; assistere ai primi momenti di coscienza di un neonato; osservare l’acqua congelarsi nel bicchiere che tengo in mano sotto il getto glaciale di una tumultuosa cascata durante il disgelo primaverile; registrare le ondate di calore e i miraggi mentre luccicano sull’orizzonte del Sahara; ascoltare il salmodiare dei monaci che accompagna le anime dei morti mentre navigano verso l’altomare nelle lanterne fiammeggianti; fissare negli occhi di un gufo la nostra immagine rispecchiata nella sua pupilla nera; seguire le ombre delle nubi che scorrono sulle vaste distese delle praterie; aspettare che la luna piena illumini un paesaggio desertico (in cerca di che cosa? l’immenso deserto ci sfugge); rimanere seduti insieme a una mandria di bisonti immobili come l’eternità sulle lussureggianti colline verdi; sollevare un pesce morto dalle acque di un lago per farlo volare in estasi al di sopra delle montagne nei suoi ultimi momenti prima di dissolversi nella terra; esaltarsi nella passione e nella violenza del mare in tempesta che si scaglia contro la costa rocciosa del Giappone; trepidare per l’ansia davanti a un uovo che sta per frantumarsi sotto i colpi sferrati dal pulcino con il suo becco aguzzo; e poi la nascita dei nostri stessi figli, la morte dei genitori, fuochi nel deserto, l’aggressione di cani latranti, alluvioni, fiumi, mulinelli d’acqua... acqua, sempre acqua.
Poi abbiamo preso in affitto uno studio
Adesso ci sono anche gli altri – cineasti, produttori, scenografi, capo-elettricisti, macchinisti – lo studio ferve di attività, dappertutto ci sono cavi elettrici e attrezzature, si monta la scena, si dipinge, si mette a punto, si illumina con attenzione, si dispone con cura paziente.
Entrano gli esseri umani: i protagonisti, entusiasti di mettere alla prova la loro capacità potenziale, ansiosi di imparare. Ma è necessario scavare per individuare le vere capacità, le conoscenze nascoste, rimaste tanto a lungo nell’ombra. Bill legge una poesia, fa loro delle domande sulla morte. Cita Rumi, il poeta medievale sufi: «La ferita è il punto da cui la luce può penetrare dentro di te». Se ne sta seduto insieme a loro, parlano con calma, si scambiano racconti, imparano a conoscersi. Adesso cominciano a fidarsi, sono forti, possono farsi avanti, adesso anche loro vogliono sapere: che cos’è la gioia? che cos’è il dolore? il tormento? la paura? la sofferenza? la rabbia? l’estasi? la pena? Non si registrano suoni, l’azione è silenziosa perché c’è un grande rumore dentro ognuno. Ma la macchina da presa ad alta velocità romba e grida agli attori. Ogni forma di movimento fisico rallenta a un punto tale che si colgono appena i mutamenti. Ma con il passare del tempo tutto diventa visibile, evidente: le emozioni che nascono e si dilatano, le lacrime, l’eterno accendere candele al santuario della Conoscenza di Sé. E i riflessi, e lo specchio, si tratta di narcisismo? Oppure è un desiderio di conoscere, di guardare ancora più nel profondo? L’acqua è smossa, non lo sapremo mai.
La mostra per Roma
Un viaggio creato per chi è alla ricerca del Sé. Si comincia con The Crossing, con l’annientamento del vecchio io. Per questa ricerca il corpo non serve più, possiamo bruciarlo o annegarlo. Dopo esserci spogliati del corpo possiamo arrenderci alla nostra missione (Surrender) e alla consapevolezza di potere nello stesso tempo morire e nascere (Emergence). Su questa terra siamo corporei (Catherine’s Room), e anche se disincarnati siamo in grado di leggere i segni dei mudra (Four Hands), di mani che sono importanti quanto il cuore.
Ecco di nuovo il tema della resurrezione e del rinnovamento: immerso in un utero d’acqua, contenitore dell’incontenibile, in Ascension il Sé nasce e rinasce. È molto fragile. L’ambiente circostante, la foresta, offrono nutrimento e protezione, ma il viaggio dev’essere intrapreso da soli, l’uomo e la donna di The Veiling non si incontreranno mai. In loro adesso vediamo le arterie, i vasi sanguigni datori di vita, gli organi interni, la struttura dello scheletro, deporre uno strato dopo l’altro finché ancora una volta si verifica la totale disintegrazione del corpo (Bodies of Light), ma questa volta tutto scompare in un lampo di luce. La prima parte si è conclusa, noi siamo davvero qui?
La seconda parte della mostra ci riporta di nuovo all’interno del nostro corpo. Siamo costretti ad affrontare la nostra immagine nello specchio, ogni parte di noi è illuminata, sottoposta all’esame di un microscopio: perché piangiamo? Perché ridiamo? Le emozioni passate al rallentatore si dilatano all’infinito (Anima). Ridere è faticoso. Sorrisi forzati. Ci accorgiamo che ci vengono più facili le lacrime; e il Buddha insegnava che tutta la vita è sofferenza (Dolorosa). Ogni cosa è una lotta, ognuno rimane isolato nel proprio mondo a sé stante (Locked Garden), la comunicazione è fraintesa (The Greeting), la collera esplode (Silent Mountain), la pena soverchia tutto (Observance). Ma perché la sofferenza? La risposta è in Memoria: la brevità della vita in un mondo a malapena illuminato, sgranato, aggrappato a un sudario di seta che si muove impercettibilmente. Talmente fragile quest’esistenza, talmente facile varcare la soglia, solo un passo oltre una parete d’acqua, trasparente (Ocean Without a Shore), ed eccoci di nuovo tornati al principio.